Sotto i ponti di Paris - In fuga da Srebrenica
Un musical di Pietro Paparo con musiche originali di Walter Gilli e coreografie di Elena Bonizzi per ricordare il genocidio di Srebrenica del 1995
L’11 luglio 1995 a Srebrenica, durante il conflitto che sconvolse la Bosnia e la ex Jugoslavia, si è consumato il più grave episodio di genocidio dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Sono passati vent’anni da quella notte.
Allora Natasha aveva sedici anni e fino a quella notte “Srebrenica era il profumo dei boschi che saliva verso il cielo, quando era primavera”. Poi, “niente, niente sarà più come prima”.
Ora vende rose e vive sotto i ponti di Parigi insieme ai Clochards.
Una notizia sul giornale riporta brutalmente Natasha ad un’alba di vent’anni fa, quando lasciò la sua bambina, “nata dal seme violento della guerra”, “davanti ad un altare, perché se ne occupasse Dio, scrivendo il suo destino”, e lei sa che Dio la volle viva “tra le braccia di una coppia americana, che la raccolse ancora in fasce e la portò via con sé, lontano”.
Ora Valentina, la sua bambola di carne, che “nulla sa di quel mattino e della sua vera madre” è diventata un’artista di successo e viene a cantare proprio a Parigi.
Da qui, scatta la solidarietà degli altri clochards per trovare il modo per andare tutti all’Olympia al concerto di Valentina. Sulla concretizzazione di questa idea geniale si snoda gran parte del racconto, tra colpi di scena e situazioni paradossali.
Ma sotto questa traccia narrativa, che fermenta l’azione scenica mantenendola sempre avvincente e brillante, si aprono nel contesto del racconto squarci di memoria in cui la tragica Storia dimenticata si incunea nell’evento attuale del concerto di Valentina all’Olympia. Frammenti narrativi che disvelano la drammatica realtà di un genocidio che si è consumato poco lontano da noi, nel tempo e nello spazio.
La storia di Natasha è quindi un’occasione per tentare di far riemergere dalle pieghe della memoria quei fatti delittuosi, che possono, forse, aiutarci a comprendere anche l’attuale drammaticità di un popolo di “sfollati, emigranti, emarginati, in fuga dalle guerre, dall’odio e dal dolore”.
E ciò, a vent’anni da quell’11 luglio 1995.
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