Amman è la capitale di un paese in bilico tra la fedeltà a una monarchia filo occidentale e l'onda d'urto della Primavera araba. Una comunità di tremila armeni, piccolo astro nel firmamento della diaspora, vive e sopravvive alle contraddizioni del Medioriente. L'undicesima puntata del reportage "Dal Caucaso a Beirut"
“C'è un momento, poco prima del tramonto, in cui il cielo di Baghdad diventa così rosso che devi guardarlo per forza. Ogni giorno la stessa storia. Io ci sono nato e cresciuto, eppure non mi sono mai abituato a quella luce”. Sevag sonnecchia col gomito appoggiato al ciclostilo meno impolverato della sua tipografia. Una bandierina armena pende immobile sulla sua testa, unta e stanca come lui. “Sono passati dieci anni da quando sono scappato”. Per un istante lo sguardo del tipografo è attraversato da un'energia vitale. “Tornerei laggiù solo per riempirmi di nuovo gli occhi con uno di quei tramonti. Ma poi”, torna a sonnecchiare, “andrei via di nuovo. Per noi armeni non c'è futuro in Iraq”.
Detto beduinoDove posi il tappeto, là è la tua casa
Giordania, un mese prima di Natale. I viottoli ripidi di Jabal Ashrafieh, la “Collina del Panorama” sono punteggiati da ghirlande di carta e luci colorate. Porta dei deserti arabici del sud, radice delle dinastie beduine, Amman è la capitale di un paese in bilico tra la fedeltà a una monarchia filo occidentale e l'onda d'urto della Primavera araba. Una comunità di tremila armeni, piccolo astro nel firmamento della diaspora, vive concentrata nei quartieri a maggioranza cristiana della città, in alto, dove l'eco delle manifestazioni che ogni venerdì riempiono le strade del centro arriva smorzato.
“Prima che arrivassero gli americani, l'Iraq era un paese tranquillo”. La tipografia di Sevag è aperta, ma per entrare bisogna chinarsi sotto la saracinesca arrugginita. “I bombardamenti delle prime settimane furono un incubo. Noi armeni però siamo rimasti, non volevamo abbandonare casa nostra”. Fino alla seconda guerra del Golfo, l'Iraq ospitava una comunità di venticinquemila armeni, discendenti dei sopravvissuti al genocidio. “La guerra civile però non ci ha lasciato scampo. Autobombe, attentati, rapimenti. Arrivato in Giordania ho continuato a fare l'unica cosa che so fare, il tipografo. Ma gli affari non vanno, ormai spero solo nel visto per il Canada”. Tra i due milioni di rifugiati iracheni arrivati in Siria e Giordania dopo il 2003, circa cinquemila sono armeni. “E' sempre così,” Sevag si passa la mano sulla barba ispida, “in guerra sono le minoranze a pagare il conto più salato”.
Il blu del cielo è accecante. All'orizzonte, oltre la distesa di case che aggredisce i sette colli di Amman, incombe come un presentimento il deserto, l'universo ocra e limpido dove solo i beduini sanno stare in piedi. Sulla sommità del Jabal Ashrafieh, all'ombra di un muro che cinge l'intimità di una chiesa armena, un mercatino natalizio richiama un viavai di persone. Hagop, ex presidente del Club armeno di Amman, accoglie con rispetto la visita di un giornalista straniero. “L'arrivo dei profughi armeni, quasi cento anni fa, fu una benedizione per la monarchia giordana. I nostri padri portarono mestieri nuovi, tecnologia, cultura. Ancora oggi la maggior parte degli orafi, dei fotografi, degli artigiani di Amman sono armeni”. La fedeltà eterna dei nuovi arrivati alla famiglia reale fu sigillata dall'assegnazione della cittadinanza, che innalzò lo status di un gruppo di profughi a quello di membri a pieno titolo della comunità.
“Nel tempo la comunità ha avuto alti e bassi. Negli anni '50 molti attraversarono la Siria per stabilirsi in Libano, un paese che offriva grandi opportunità. All'epoca lo chiamavano la Svizzera del Medio Oriente”. Vent'anni dopo quelle stesse famiglie furono costrette dalla guerra civile libanese a rientrare in Giordania, profughi per la seconda volta in due generazioni.
“Lo ricordo come fosse ieri. Enormi macchine americane con la targa di Beirut, piene di bagagli, da cui scendevano facce disorientate. Molti ripartirono subito, per gli Stati Uniti, per l'Africa o per il sud America”. Ancora una migrazione, ancora un tassello nella poliedrica identità dei figli della diaspora armena.
Intanto il mercatino sta per chiudere. Davanti a un tè, mentre il sole si prepara a cadere oltre il deserto, l'atmosfera nel cortile della chiesa si fa più intima. “La Siria sarà una carneficina, credimi. Peggio del Libano, peggio dell'Iraq. In ballo c'è qualcosa di ancora più grande”. Come se quanto detto finora fosse stato solo una premessa, un prologo di formalità, il discorso vira violentemente sull'argomento che aleggia su questa terra e queste persone col peso di un macigno. “Gli Stati Uniti stavolta hanno trovato un sistema geniale per destabilizzare il Medio Oriente, non hanno dovuto sparare neanche un colpo. Hanno armato direttamente i cittadini siriani contro il loro governo. E il governo è costretto a rispondere al fuoco”.
La teoria che dietro alla Primavera siriana ci sia una ingerenza esterna è comune, soprattutto tra chi percepisce il cambiamento come un salto nel vuoto, chi si sente indifeso al di fuori degli equilibri esistenti. “Ma ci sono in atto massacri di civili. I governi dovrebbero proteggere i loro cittadini.” La reazione di Hagop alla mia frase è gelida. “Perché”, chiede senza neanche aspettare la risposta, “il governo ottomano nel 1915 difese i suoi cittadini armeni?”.
Dal mio diario. 27 novembre
Sul Jabal Ashrafieh il vento notturno del deserto mi sbatte in faccia folate di ghiaccio, una per ogni dubbio che mi porto dentro. Dove mi sta portando questa storia? Cammino da mesi sulle ceneri di tragedie umane come un'ombra che entra e esce di scena senza farsi mai riconoscere. Non fosse stato per un doganiere scrupoloso, oggi sarei stato a Damasco, a evocare i fantasmi di qualcun altro. Quanta guerra hanno rigurgitato oggi le mie domande? L'Iraq fratricida del tipografo di Baghdad, la schizofrenia del Libano degli anni '70, la paura cinica eppure legittima di Hagop di fronte alla Primavera araba, la guerra civile siriana, ormai alle porte di Damasco. A nord, oltre il punto in cui la via lattea sembra fondersi col suo stesso riflesso, c'è la Siria. Guardando questo cielo capovolto, l'epilogo mi è finalmente chiaro. Questa storia sta per finire. Finirà lì.
Turbini di sabbia si avvitano in cielo, emanando un luce livida che sbiadisce i colori del deserto. Oltre il confine, ombra tremolante, Daraa appare come sospesa all'orizzonte. La Primavera siriana esplose all'inizio di marzo nelle sue piazze, quando un gruppo di minorenni fu arrestato per aver scritto su un muro che il presidente della repubblica, Bashar al Assad, doveva togliersi di mezzo. I ragazzi, come da sempre accade ai siriani accusati di reati politici, furono massacrati di botte. Ma i cittadini non si comportarono come sempre. Scesero in strada e incendiarono il palazzo di giustizia con la benzina. L'atto di contestazione esplicito segnava l'ora della rivolta.
Da qualche giorno questo confine è chiuso. Nessuno esce, nessuno entra. La Siria assomiglia sempre di più a una sacca chiusa in cui fermenta una violenza sconosciuta alla storia del paese. Da questo lato della frontiera ci si attrezza per ospitare le persone già pronte a scappare, spianando tratti di deserto dove sorgeranno le tendopoli. I bulldozer danzano sulla sabbia come pachidermi in amore. Ma questa terra non è fatta per uomini comuni. Solo i beduini restano in piedi nel deserto.
L'aereo compie acrobazie sinuose prima di allinearsi alla pista di atterraggio di Beirut. Da qualche parte, sulla cresta dei monti che riempiono lo sguardo a Levante, c'è l'ultima porta rimasta aperta per la Siria. Taxi collettivi per Damasco partono dal porto a ogni ora, carichi di uomini abituati da sempre a pensare che la guerra, per qualche alchimia, non li riguarderà. Prima di unirmi a loro devo assolvere a un ultimo compito. Tra i filari di meli e ciliegi della valle della Bekaa una donna aspetta da settant'anni di rivedere il volto di sua sorella. La lunga attesa sta per finire.
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