Esce per Perosini Editore Il cane alato, sette racconti di Bozidar Stanisic, che intrecciano la genesi di uno scrittore e la memoria di un testimone, in una galleria di personaggi 'resistenti': marginali alle realtà dominanti, scettici, ma fedeli a se stessi
Di Antonia Pezzani
Nella storia degli uccelli migratori c'è una promessa: la promessa del ritorno. Dopo una decina di minuti di immagini, sono queste le prime parole di Il popolo migratore, documentario francese di qualche anno fa.
Come per gli uccelli anche per gli uomini la migrazione è un viaggio per la vita, dettato spesso imposto dalla matematica della sopravvivenza, tanto che sovente confondiamo l'arrivo con la salvezza.
Cosa succede però se questo ritorno non fa che ripetere la sua impossibilità? E non è un'impossibilità dettata dalla distanza o dalla capacità effettiva di percorrere la distanza. Perché magari in quel posto ci siamo tornati. Eppure qualcosa dice: No! e muta il rifiuto in un automatismo di rigetto. Come se si fosse diventati incapaci a rimettere radici. Ovunque. E si restasse con le radici al vento. Perché in fondo un uomo non è un uccello.
Cosa succede se la terra che un tempo era il nostro nutrimento e ci aveva promesso fratellanza e unità, unità e fratellanza e un radioso avvenire, è stata seminata a mine ed annaffiata col sangue? E cosa succede se noi ci sentiamo, nostro malgrado accusati di pacifismo o co-responsabili di eventi che non siamo riusciti a fermare, che non tornano indietro, non si cancellano? Chiedetelo a ogni parola che leggete in questo libro. Come lo chiedereste a una qualsiasi delle parole che escono dalla tastiera del computer della Ugresic.
Parole capaci di proiettare ombre tra le pareti delle nostre stanze teleriscaldate: a volte è Brodskij, più pallido del solito, che si sforza di non dire esilio, altre è Hobbes che ripete cupo homo homini lupus come un mantra, a volte è Voltaire inquieto e teso come se non sapesse più dove mettere un punto. Altre volte fugace, un albatros.
Stanisic infine questi eventi li ha legati alla sua vita indissolubilmente: perché non riaccadano.
Bozidar Stanisic ha lasciato la sua Bosnia nel 1992, e non l'ha più trovata. Zugliano forse, è diventata la finestra da cui può - non può fare a meno di guardare verso la sua terra, ogni tanto. È partito che era un bosniaco e ora, dopo la pace, neanche i bosniaci ci sono più: ci sono i bosgnacchi, che è la traduzione del termine coniato nella lingua che ha dettato le condizioni della pace, bosnjak. Eppure nei suoi racconti i bosniaci ci sono ancora. Come forse c'è ancora quella Bosnia vissuta senza le parole della propaganda, ma con quelle più vibranti dell'esperienza personale, della testimonianza.
La lingua dei racconti di Stanisic testimonia pure un intenso viaggio anche linguistico dentro l'attraversamento: porta le tracce di questa maturazione durata negli anni e che sembra aver trovato in questa raccolta un prezioso equilibrio che ne fa uno strumento maieutico capace di mediare un'esperienza molteplice, non soggiogata dalla guerra.
Le sue parole, cresciute nel pacifismo, sono come un arco teso che punta però a altre parole nella mia memoria di lettrice e fa esplodere, vive nella mia memoria di ascoltatrice, parole di altri sopravvissuti: "rannicchiati nel bosco come animali," "accatastati come tronchi senza testa," "legata a un albero con il ventre squartato e un gatto," "un gregge di pecore in putrefazione ancora legato alle mangiatoie." Così che le parole che credevamo perdute, ritornano.
Forse le vie del ritorno sono più misteriose di quelle che percorremmo lasciando un luogo.
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