Tim Judah, giornalista ed esperto di Balcani, racconta nel suo ultimo libro, in modo semplice, ciò che sul Kosovo tutti devono sapere. E non mancano i riferimenti al ruolo avuto dal mediatore ONU Martti Ahtisaari, recentemente insignito del Nobel per la pace
Corrispondente dai Balcani dal 1991 per diversi media britannici come il London Times e l'Economist, Tim Judah ha già pubblicato due volumi ad ampio respiro, oggetto di studio e di facile lettura: "I serbi: la storia, il mito e la distruzione della Jugoslavia" (1997) e "Kosovo: guerra e vendetta" (2000). Con "Kosovo: quello che tutti devono sapere"(Oxford University Press, 2008), Judah propone ora un'introduzione schietta che non è indirizzata agli esperti, ma piuttosto al vasto pubblico, ai lettori neofiti di quest'area.
Come il precedente, anche questo libro si basa su un'ampia ricerca sul campo, e su interviste i cui protagonisti principali si concentrano sui punti cruciali della storia del Kosovo, che mettono in evidenza fatti accertati, oppure presentazioni approfondite degli argomenti del conflitto - che spesso corrispondono ai punti di vista divergenti del popolo albanese e di quello serbo. Seguendo l'ordine cronologico, il libro riprende la storia del Kosovo, passato e presente, senza perdere di vista il contesto più ampio. La prefazione sottolinea una serie di argomenti chiave: innanzitutto, il Kosovo si trova all'interno dell'Europa, in secondo luogo la prospettiva di integrazione europea costituisce un incentivo importante per le riforme, ed infine, a differenza di altre aree post-conflitto, i Balcani rappresentano una storia di successo.
I primi tre capitoli sono dedicati ad una presentazione generale di serbi e albanesi e della loro comprensione delle rispettive storie. Judah ricostruisce l'immagine poco chiara di popolazione e geografia - quanti e dove sono, facendo presente che né serbi né albanesi vogliono un nuovo censimento, perché "temono quello che potrebbe mostrare, vale a dire che le persone di entrambe le parti che vivono nella regione potrebbero essere molte di meno rispetto a quante ne vogliono far credere" (pag. 2). Il ruolo della lingua per gli albanesi, e della religione per i serbi, sono ben riassunti. A questo proposito, alcune espressioni aiutano a sintetizzare le questioni complesse: "Attraverso la storia, la cartina della Serbia si è ingrandita, rimpicciolita, scomparsa e riapparsa diverse volte" (pag. 12); "I serbi, ancor più che i confini della Serbia, si sono allontanati, spostati, sono fuggiti ed emigrati nei secoli, fuori e dentro al Kosovo e nello spazio dell'ex Jugoslavia" (pag. 13).
Judah insiste sul fatto che serbi e albanesi hanno creato una loro versione dei fatti che è lontana dalla verità storica. Questo è testimoniato dal particolare ruolo che Lazar e Skanderberg hanno avuto nel tempo, a seconda delle esigenze di un dato periodo. Certo, il racconto continua: Ade Jashari, eroe dell'Esercito di Liberazione del Kosovo (UCK), sta diventando uno Skanderberg dei giorni nostri, in risposta alla necessità del paese di avere nuove icone nazionali.
I tre capitoli successivi inseriscono il Kosovo nella sua storia complessa, rivedendo il periodo compreso tra il 1557, quando venne ripristinato il patriarcato di Peć, e il 1986, anno di pubblicazione a Belgrado del cosiddetto Memorandum. Emergono poi due figure che riassumono il periodo successivo: Milošević e Rugova. Gli anni '70, spesso visti come l'età dell'oro per il Kosovo ma anche per la Jugoslavia, sono ormai passati: mentre il nuovo regime di Belgrado pone fine all'autonomia della provincia e scoppiano le proteste degli albanesi (1989), prende forma uno stato virtuale, la Repubblica del Kosovo. Si tratta del governo ombra di Rugova e delle strutture parallele albanesi. La voce narrante, qui, emerge in modo particolare, spiegando perché i serbi tollerarono lo stato parallelo albanese. Innanzitutto il Kosovo di Rugova era uno stato non-violento, il boicottaggio delle elezioni da parte degli albanesi aveva assicurato la vittoria di Milošević al potere e, ultimo ma non meno importante, i serbi non avevano interesse nell'aprire un secondo fronte (a quel tempo stava iniziando l'assedio di Sarajevo). Alle spalle di Rugova, l'UCK - fondato nel dicembre del 1993 - attirò una nuova generazione di attivisti, uomini armati e preparati alla guerra.
Nonostante le contenute dimensioni di un libro di questo genere, la descrizione dell'autore è abbastanza dettagliata e presenta una buona panoramica degli eventi chiave. Le tensioni tra la gente di Rugova e l'UCK, gli Accordi di Dayton che hanno messo fine al conflitto in Bosnia, ma hanno dato un segnale che la resistenza pacifica non portava il Kosovo da nessuna parte, il collasso dell'Albania in un'anarchia che ha facilitato la presa delle armi da parte dell'UCK e la diffusione degli scontri. I 78 giorni di bombardamento della Serbia e del Kosovo sono ben documentati e non tralasciano la fine della guerra (10 giugno 1999), quando gli albanesi si sono vendicati contro i serbi e i rom.
I due capitoli successivi, probabilmente la parte più interessante del libro, si focalizzano sul Kosovo dopo il 1999. Mentre oggi gli anni dell'UNMIK sembrano ormai passati, l'autore richiama l'effettività della missione nel superare la lotta per il potere tra il partito di Rugova, la Lega Democratica per il Kosovo, e l'UCK e, cosa più importante, la costruzione dal nulla delle istituzioni.
L'autore propone di dividere questo periodo in due fasi: prima e dopo il 17 marzo 2004. Mentre prima di questa data lo scopo era quello di rimandare la questione dello status del Kosovo ("standard before status") e di concentrarsi sulle riforme, in seguito ai tumulti di marzo 2004 la politica dovette cambiare: da ora in avanti la formula "standard with status" è applicata al Kosovo. Infatti, come suggerisce Judah, gli standard"erano più o meno dimenticati" (109) e solo lo status aveva importanza. I tumulti spinsero il Segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, ad ingaggiare Kei Eide per condurre la missione. Il diplomatico norvegese rese noto il suo rapporto nel novembre del 2005, e convinse il Segretario Generale ONU a chiedere a Marti Ahtisaari di fare da supervisore ai colloqui sul futuro del Kosovo. I negoziati tra i serbi e gli albanesi del Kosovo risultarono impossibili, così Ahtisaari presentò un suo piano il 26 marzo 2007: un'indipendenza sotto la supervisione internazionale, un piano mai sostenuto dal Segretario Generale.
Il passo successivo, infatti, è stato caratterizzato dalla transizione dal periodo UNMIK all'era del protettorato UE, in cui l'ICO (International Civilian Office) aveva come modello l'Ufficio dell'Alto Rappresentante. Judah insiste sul fatto che Ahtisaari ha cercato di trovare una formula migliore che corrispondesse de facto alla divisione del Kosovo - "il cuore di questo piano era la decentralizzazione, intesa come codice per l'autonomia serba" (pag. 113). Si potrebbe leggere tra le righe: la transizione sopracitata avvicina il Kosovo ad una falsa indipendenza e partizione. Di sicuro il Kosovo "non risulterà indipendente come la gente si aspettava" (pag. 116).
Il libro conclude inserendo il Kosovo in primo luogo nel più ampio contesto regionale (capitolo 11). Interessante l'osservazione che il progetto di una grande Albania stia lasciando il posto ad uno spazio culturale ed economico pan-albanese. Ma se l'integrazione europea si rivelasse impossibile, in tal caso ci si potrebbe immaginare che il riesame della questione albanese potrebbe mettere in discussione i confini ereditati dalla Jugoslavia e aprire, come avverte l'autore, un vaso di Pandora.
Poi il caso kosovaro viene inserito in un contesto globale (capitolo 12). Ovviamente, l'indipendenza del Kosovo potrebbe esser vista come un precedente per altre regioni separatiste o potenziali regioni separatiste. Dietro ad un approccio semplicistico, i recenti sviluppi in Abkhazia ed Ossezia del Sud, ma anche in Tibet, tendono a dimostrare l'importanza dello sviluppo legale e del contesto politico - diversi per virtù. Di certo il Kosovo è un test fondamentale per la credibilità dell'UE in qualità di attore mondiale. Ma in questa fase - e Judah è molto esplicito sulla questione - la dichiarazione d'indipendenza del Kosovo del 17 febbraio 2008 " non è l'ultimo capitolo della storia che è iniziata nel 1999 (o nel 1989, o nel 1912, o nel 1389...), ma piuttosto un nuovo capitolo" (pag. 140). Come appare ora, è decisamente poco chiaro come sarà il prossimo capitolo. L'autore ci ricorda che "dato che la storia non ha una fine, non c'è una fine nemmeno alla storia del Kosovo"(xvii). E il libro di Judah ci racconta appunto la storia, non come potrebbe andare a finire.
Infatti, in modo molto analogo al duplice - ovvero contraddittorio - status che il Kosovo aveva dal 1974 in poi, durante la Repubblica Federale Socialista Jugoslava (da un lato il Kosovo era parte della Serbia, dall'altro aveva tutti i diritti e le funzioni di una repubblica all'interno del sistema federale), oggi il Kosovo resta parte della Serbia (come riaffermato dalla Risoluzione ONU 1244), ma è anche uno stato indipendente sotto la supervisione internazionale, riconosciuto da 50 paesi. Questa situazione tende a perpetuare il problema del Kosovo, non a risolverlo!
Il libro propone un'eccellente panoramica sul destino del Kosovo. Gli eventi chiave, gli argomenti del conflitto e le sfide principali sono ben distribuite, questo trasmette al lettore una conoscenza di base e, auspicabilmente, il desiderio di volerne sapere di più. Nel complesso, un libro che tutti dovrebbero leggere.
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