Tbilisi, Mtskheta, Gori, il Kakheti. Un viaggio attraverso la Georgia e la sua storia fatto di luoghi, impressioni, persone, cibi e tradizioni
Di Francesco Trecci. Riceviamo e volentieri pubblichiamo.
Arriviamo a Tbilisi che è notte profonda, all'aeroporto ci attendono i nostri amici. Percorriamo velocemente la nuova arteria che collega la moderna aerostazione con la città. Quant'è cambiata in sei anni. Allora era illuminata solo fino alle 23, dopodiché i monumenti si spegnevano nella profonda notte caucasica. Adesso no. Tutto brilla. La Madre Georgia imponente sulla collina, le chiese sul fiume. Il nuovo palazzo presidenziale sulla collina. E accanto la gigantesca Sameba, la seconda chiesa più grande del mondo Ortodosso, seconda solo alla cattedrale moscovita.
Luccicano i bei balconi arroccati sulle antiche mura e il viale Rustaveli tutto ristrutturato, tornato forse ai fasti ottocenteschi quando fu progettato e costruito dal governatorato russo del Caucaso. Questo grande Boulevard è il cuore pulsante della città. Qui i georgiani nel 1956 eressero le barricate contro la de-stalizzazione, nell'89 si scontrarono con le truppe dell'Armata rossa che uccisero 19 giovani, nel 2003 protestarono contro Shevardnadze e a partire dal 2007 contro l'attuale presidente.
Andiamo a letto e la mattina iniziamo subito il tour cittadino. Passiamo di nuovo sul viale Rustaveli, con le sue aiuole ben curate e tutti i palazzi tornati ai colori originali. Arriviamo in Piazza della Libertà; dove adesso c'è un San Giorgio dorato che uccide il drago fino al 1990 svettava una statua di Lenin, di fronte al palazzo Comunale. Si respira un'aria da grande capitale europea. Dietro il Municipio è tutta raccolta la vasta Città vecchia, tante strade e vicoli abbarbicati tra la collina di Narikala con la sua prode fortezza e la nuova città ottocentesca.
La Vecchia Tbilisi è cadente, popolare, asiatica. Le case, tranne cinque o sei strade, sono malmesse. I palazzi sembrano abbandonati. Ma in ogni caseggiato si scorge una tendina, si sente una radio. Parabole ovunque. E tante chiese (armene e georgiane), il tempio ebraico, la severa moschea dove pregano assieme sunniti e sciiti. I bagni termali. Mercatini abusivi appaiono dai bagagliai delle auto. Povertà, umanità, cani randagi. La grande ristrutturazione cittadina ha toccato solo le grandi arterie evitando così all'uomo d'affari o ai diplomatici stranieri frettolosi di vedere situazioni non piacevoli. È un vero peccato...la città vecchia, se ristrutturata senza eccessivi stravolgimenti, sarebbe magnifica. Tbilisi ancor più oggi che in passato appare a due facce: da un lato la nuova borghesia (cerchia di pochi eletti) che spende e spande. Il resto dei cittadini sempre sull'orlo della sussistenza. Entriamo una dopo l'altra in tutte le chiese. Le persone si segnano sin dal patio esterno. Le donne si celano il capo. All'interno si accendono lunghe candele, le pareti severe sono spoglie. Dappertutto ci sono icone e dipinti dei santi. File di devoti baciano le immagini e pregano. È la profonda e sincera spiritualità georgiana. Lontana da riflettori.
Nell'antichissima chiesa di Metechi, a picco sul Mtkvari, una signora di nome Marina ci prende per mano e ci indica tutti i santi raffigurati nelle icone, s'illumina quando capisce che conosco il martirio di Sant'Abo narrato da Ioane Sabanidze. Abo, fu un personaggio troppo particolare perché i georgiani ne perdessero le tracce. Era un giovane arabo convertito al cristianesimo in una Georgia sotto controllo islamico. Fu trucidato dai suoi connazionali per non aver rifiutato la sua fede religiosa. Ioane Sabanidze, un suo amico, ne narrò le vicende. Abo diventò così suo malgrado il simbolo del "nazionalismo" georgiano contro l'invasore. Fu allora (nell'VIII secolo) che definitivamente il patriottismo si saldò con la fede cristiana. Il Patriarcato georgiano ha infatti santificato nei secoli re, poeti ed eroi del Paese.
Dalla chiesa di Metekhi andiamo velocemente verso il vecchio quartiere armeno. La città fino ai primi del novecento era la più cosmopolita di tutto il medio-oriente. Armeni, azeri, russi, ebrei, turchi, greci..una babele. Adesso se ne respira sempre l'aria, ma la stragrande maggioranza della popolazione è georgiana. Questo quartiere è ancora più diroccato della città vecchia. La gente ha facce scure, solo i bambini sorridono e scorrazzano ovunque. Passano tante macchine della polizia. Auto con i vetri scuri, camionette dell'esercito. Anche il cielo s'imbrunisce. È il 7 agosto, sembra autunno. È passato un anno dalla guerra con la Russia. Arriviamo a Sameba. L'aria è solenne, dentro la chiesa una folla si accalca intorno all'altare. Sentiamo una voce consumata ma decisa. Parla nella stessa lingua del Re Mirian. Il sovrano che nel quarto secolo accolse una donna Cappadocia di nome Nino venuta a cristianizzare definitivamente il paese. È Ilia II, Patriarca della Chiesa Ortodossa Georgiana. Siamo gli unici stranieri. Intravediamo anche le più alte cariche repubblicane. Fuori dalla Chiesa percorriamo il viale che porta alla nuova residenza presidenziale. Il nuovo presidente fra le polemiche ha voluto innalzare un immenso edificio in stile neo-classico. Rende la città ancora più eclettica.
Sempre più soldati e poliziotti, riscendiamo nel ventre cittadino, il traffico è impazzito e piove a dirotto. Ci rifugiamo in una delle stradine tirate a lucido della città vecchia. Nel 2003 c'era qualche artista. Lo chiamavano il Village. Tutto spazzato via. Ora come funghi sono nati tutti localini in perfetto stile newyorchese. La patina post-sovietica è un ricordo. Prezzi delle case alle stelle, rifacimenti urbani, nuove auto. Le basi militari americane proteggono gelosamente quest'esperimento. Solo la guerra ha un po' ammaccato la corsa della Georgia.
La sera ci abbuffiamo in un vecchio ristorantino. Scorpacciata di Khinkali e Khachapuri. Birra e vino. La semplice tavola caucasica.
Da quando sono entrato in contatto con questo paese sento parlare di Kakheti, una regione orientale, al confine con l'Azerbaijan. Un mio caro amico è nato da queste parti. Le guide lo descrivono come la Toscana. La Terra del vino e delle migliori tradizioni nazionali. Lo vogliamo vedere. Arriviamo a Sighnaghi, la cittadina più turistica. Ci sono i balconi di Tbilisi, è un dolce paesino medievale finemente ristrutturato. Quasi perfetto. Ma quello che adesso sembra un posticino da innamorati nel medioevo era una prode fortezza. Ad appena due chilometri, l'atmosfera cambia. Su un poggio boscoso e sbilenco troviamo un convento. Piccolo e semplice. Entriamo dentro e siamo abbacinati dalla severità e dalla sacralità che emana. A destra notiamo una cripta affollata, una bara di marmo bianco. È la tomba di Santa Nino, la ragazza della Cappadocia.
Dalla vetta più alta ci appare il Kakheti. Mi aspettavo colline e dolci saliscendi. Nient'affatto. È un'immensa pianura. Quasi inabitata. Non una casa o un villaggio per chilometri. Non c'è la mano dell'uomo.
Altroché Toscana, qui siamo in Puglia, nel Tavoliere. Questa zona è stata prodiga di buoni figli da donare alla patria. Il più famoso è Ilia Chavchavadze. Nato a Kvareli, un povero villaggio di contadini, fu il creatore del moderno nazionalismo georgiano. Dai campi nudi pastori con le mandrie attraversano le strade. Carri con i cavalli faticosamente tentennano tra le macchine scalcinate. Sulle strade perdo il conto degli edifici distrutti e abbandonati. È la desolazione delle terre abbandonate dagli emigranti e rimaste incatenate ad agricoltura di mera sopravvivenza. Siamo a cena, come ospiti d'onore, dai nostri amici. Famiglia al completo. Canti e balli. Cena luculliana, frutta dolcissima. Ancora una volta siamo abbracciati dalla grande generosità georgiana. I giovani, come il nostro amico, abbandonano queste terre. Ora da qualche mese, dopo la guerra la vita si è fatta ancora più dura. Il vino, petrolio di questa regione, resta invenduto nelle cantine. I russi erano i principali importatori e ora non lo vogliono più. La strada per la capitale è tutta diritta. Dopo un'ora nel buio, dietro un balzo ci appare un mare di luce. Tbilisi con i suoi 2 milioni di abitanti raccoglie ormai più del 40% di tutti gli abitanti del Paese.
La direttrice principale della Georgia è la Tbilisi - Batumi coperta in gran parte da una nuova autostrada. La prima tappa di questo tragitto è Mtskheta, antica capitale della Kartli (uno dei regni proto-georgiani dell'antichità), con la sua chiesa della Colonna Vivente dopo la leggenda narra sia sepolta la Tunica che indossava Cristo durante la Crocifissione, portata quassù dal rabbino Elioz. E la magnifica chiesa di Jvari dalla quale si domina l'intera vallata.
Vicino sorge la città di Gori. Povera e triste, Gori ci appare ancora con i segni della guerra d'anno scorso. Nel 1920 fu interamente distrutta da uno dei tanti terremoti che l'hanno tormentata. La ricostruzione non fu benevola. Le casette sono tutte grigie e identiche. Intorno condomini dell'era sovietica insolitamente vivaci. Un'alta collina con una bella fortezza domina la città. Pare ci abbia combattuto anche Pompeo nel 65 ac. Di colpo tutta l'attenzione è carpita da una grande statua scura innalzata di fronte al palazzo comunale. È Stalin.
Tutto il mondo ha cancellato i segni di questo feroce dittatore. Solo la sua città natale ne conserva la memoria, anche a costo di negarne i tragici errori. Dopo cento metri ci appare un tempio. Era la casa di Stalin, salvata dalle distruzioni degli anni '30 e avvolta in una costruzione per preservarla. Siamo nel Museo-Mausoleo a lui dedicato. Entriamo e la guida in francese ci racconta delle poesie giovani romantiche e religiose da lui edite, del suo fervore patriottico, della sua potenza.
Un tassista ci accompagna in un sito fuori città. In pochi chilometri è piena campagna, l'aria è tersa. Siamo ad Uplistsikhe, capitale della Kartli prim'ancora di Mtskheta. Oggi dopo terremoti e distruzioni è una impressionante città rupestre, circondata da un paesaggio talmente bello che le parole non possono proprio riproporre. È patrimonio dell'Umanità dell'Unesco. Siamo soli. Un vecchio prete tutto vestito di nero ci appare tra i sassi.
Con l'animo pieno, ci lasciamo alle spalle l'antica Uplistsikhe, dobbiamo tornare a Tbilisi per l'ultimo incontro del nostro breve soggiorno. Ad attenderci troviamo un altro caro amico, il prof. Kervalishvili. Intellettuale e scienziato europeo. Si tratta di uno dei maggiori accademici del paese, con cattedre assegnategli in Italia e Stati Uniti, ex ministro dell'Istruzione ed ex vice-premier per 6 anni.
Ci interroga curioso sulla situazione del nostro paese. Parliamo tutto il pomeriggio, nella sua bella casa di Vake, scambiandoci idee e punti di vista. Ci parla del governo in carica, degli americani e dei russi. Si è fatto sera. Un'altra grande cena ci aspetta e nel cuore della notte un aereo ci porta nell'antica Costantinopoli.
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