Massimo Bonfatti, dell' associazione Mondo in Cammino ha compiuto un viaggio nelle regioni del Caucaso del Nord. Riceviamo e volentieri pubblichiamo il suo racconto.
Inafferrabile e persistente. Nebbia che non è nebbia. Polvere che non è polvere. Ma la vista è appannata mentre si percorrono le strade di Grozny, mentre la macchina corre veloce ogni giorno da Shali (dove siamo ospiti da Iliaz) alla capitale della Cecenia. Anni di distruzione e di bombardamenti ed i continui travasi delle migliaia e migliaia di tonnellate di macerie (non una casa è stata risparmiata) marcano il ricordo della tragedia con questo indistinto aerosol che ovatta una realtà contraddittoria, ma che con prepotenza vuole affrancarsi dalla guerra. Grozny è tutto quello che non mi sarei mai aspettato. Un cantiere e una vitalità inaspettata. Gli orrori sono diluiti a macchia di leopardo in zone non ancora raggiunte dalle gru, ma per il resto i palazzi sono colorati e piatti come una serie di Lego e si rincorrono e fanno a gara con policromie prepotenti. Grozny è, paradossalmente, una delle città con più aeree verdi al mondo. Gli spazi di ampio respiro e di vaste vedute che si frappongono fra una zona e l'altra non sono altro che porzioni della città private della precedente vita: interi rioni scomparsi, distrutti. Grozny si sta ricostruendo su una nuova morfologia.
Dopo la prima impressione che stordisce l'occhio abituato alle foto dei reportage di guerra ed alle immagine del 2000 di Grozny viste tante volte nella sede di Memorial a Nazran, la pupilla comincia a "zoomare" sui dettagli: i nuovi palazzi non sono nient'altro che i vecchi palazzi rimasti in piedi e ricoperti in fretta di pannelli multicolori che nascondono le sottostanti tracce ed i buchi dei mortai e dei bombardamenti; tracce ancor più evidenti, se li affronti dal di dietro e dalle porte e scale di servizio. Sulle facciate anteriori giganteggiano foto di Kadyrov, padre e figlio, e di Putin.
Storciamo il naso, ma un fatto è ineludibile: Ramzan Kadyrov, accusato di spocchia, ignoranza e di vari delitti dagli occidentali, non è malvisto dai più. Un mese prima parlavo di lui qui in Italia con Lidia Yusupova e le facevo presente tutte le mie reticenze nel dovere, all'eventualità e per motivi istituzionali legati a MIC, incontrarlo e stringergli la mano. E Lidia, spiazzandomi, mi rispose: "Devi incontrarlo e devi stringergli la mano. Non hai alcun diritto di giudicarlo. Non è lui il problema. Lui è solamente un cadavere che cammina, ma il fatto che, sotto di lui, una mamma possa accompagnare il proprio figlio al giardino e comprargli un gelato è molto importante. Vedi, Massimo, penso che io e quelli della mia età abbiamo una grande responsabilità ed una grande colpa. Mi ricordo sempre di una coppia di vecchi che dopo un bombardamento, all'uscita dalla cantina, e dopo aver visto dei soldati russi, mi chiesero: «E adesso dove ci portano? Ci fucileranno?». Un'angoscia indicibile mi colse: quei vecchi, durante la deportazione cecena voluta da Stalin, erano finiti nel Kazakhstan; ritornati in Cecenia dopo 13 anni di deportazione, avevano provato ed incominciato a ricostruirsi la propria vita, anche questa ormai distrutta da alcuni anni, dall'inizio del primo conflitto russo-ceceno. Quale è lo stato d'animo di questi vecchi? Sono praticamente nati con una situazione di sofferenza e con la stessa situazione si avviano verso la fine dei loro giorni. Cosa gli abbiamo lasciato? Niente! Nemmeno la speranza di finire in pace la loro esistenza. Il non essere riusciti ad assicurargliela è stata colpa nostra, perché ci siamo dedicati più al conflitto che non alle possibilità di creare una pace stabile. La gente è ormai stufa della guerra, le spinte indipendentiste non interessano più".
Shakhman, amico e cicerone nella sua città, ci invita a cena a casa sua e, seppur preso dal suo ruolo di responsabile di Memorial per il Nord Caucaso, ci parla del futuro, della rinascita della sua repubblica, della casa bruciata che sta ricostruendo e del futuro da assicurare ai suoi due figli maggiori, in procinto di crearsi autonomamente la propria vita. Shakhman ci presenta la società civile ed istituzionale, dal portavoce di Kadyrov ai docenti dell'Università di Grozny, dal ministro dell'Istruzione ai responsabili del centro "Lam", dal ministro per le nazionalità ai giornalisti, dal sindaco agli storici della società cecena.
Incontriamo Lilja Yusupova, presidente di Memorial a Gudermes. Ci parla di una realtà poco conosciuta ai più: i profughi "non profughi", persone con diritti negati. Si tratta di famiglie scappate dalle montagne a causa della guerra e non più rientrate in quanto le case sono ormai distrutte. Vivono in pianura presso parenti o amici, ma ufficialmente risultano registrati in montagna. I loro figli stanno crescendo analfabeti perché non hanno diritto a frequentare la scuola della comunità di cui sono ospiti. Lilja ha fondato un'associazione per occuparsi di loro.
Incontriamo Zarema Sadupaeva direttrice dell'associazione "Salviamo la generazione" che si occupa di bambini e ragazzi vittime di scoppio da mina. Ci fa vedere un video impressionante: con lei decidiamo di dare avvio per il 2008 all'accoglienza di un gruppo di questi minori.
Una sera, verso l'imbrunire, ci rechiamo ad Avtury. Passiamo di fianco ad una fabbrica di polli in cui le vasche venivano riempite di acqua per fare annegare chi, con le più svariate motivazioni, era, insindacabilmente e inesorabilmente, considerato terrorista (risultato della nuova forma di "zachistka", figlia di quella ipocrisia per cui il secondo conflitto ceceno iniziato nel 1999 è stato definito "operazione antiterrorista"). Entriamo in una casa, un po' discosta dal villaggio ed in posizione di predominio: il panorama che impatta subito con la catena del Caucaso è affascinante. Prima di noi in questa casa, due anni fa, era stata ospite Anna Politkovskaya. La padrona di casa, sua amica, ci accoglie con la consueta cordialità tipica dei ceceni e del loro modo di essere musulmani. Ci racconta di come Anna si era presentata vestita alla "moscovita", cioè in maniera molto "vistosa" per quei posti e di come abbia dovuto adeguarsi alla realtà locale, senza fastidio, ma con molta disponibilità ed umiltà. Parla di una persona molta curiosa e di come, pur nel volgere di un tempo breve, avesse instaurato un rapporto di amicizia. Si erano ripromesse, per la volta successiva, di scambiarsi le ricette, ma questo non è mai avvenuto. Sappiamo tutti come è andata a finire.
L'incontro più emozionante a Grozny è stato quello fra i giovani delle tre etnie (osseti, ingusci e ceceni) convocati espressamente da MIC nell'ambito dell'iniziativa del giornale interetnico "Tutti figli di Noè". L'incontro si è svolto presso la biblioteca centrale di Grozny. La direttrice, Satsita Israilova, è una donna speciale. Durante i bombardamenti ha "trafugato" dalla biblioteca oltre 7.000 libri, preservandoli dal danneggiamento ed anticipando, come poi è avvenuto, la distruzione dell'edificio. Ogni giorno, con fatica e con il rischio di essere sorpresa, se li è portati un po' alla volta a casa propria. Ora questi libri sono il fondamento culturale della biblioteca centrale e fanno da contorno a questa riunione nel cuore di Grozny. I giovani convocati, pur nelle divergenze etniche e religiose, dopo confronti, anche accesi, sono riusciti ad accordarsi sulle linee e sugli argomenti da trattare nei prossimi numeri del giornale. È stato, inoltre, proposto, in un prossimo futuro, di affrontare anche il problema della "memoria". Allo stato attuale, infatti, il ruolo della memoria nei conflitti interetnici del Caucaso ha un significato negativo e vendicativo. Il processo a cui si assiste è quello della sua "memorializzazione", cioè il tentativo di creare dei simulacri fisici come muri del pianto pronti a raccogliere le lacrime di ogni singola deportazione o conflitto, senza mediazioni con il dolore altrui e senza lo sforzo di renderlo base stabile e di confronto perché ciò non avvenga più. Non gli eventi tragici del passato come esempio da evitare, ma come modello da seguire. La nostra piccola sfida è tentare di invertire questo concetto. Una piccola sfida nella grande sfida generale di un paese che vuole percorrere a tappe forzate la strada verso qualcosa che possa sembrare riconciliazione.
Anche Kadyrov l'ha capito e, per necessità od opportunismo, ha intrapreso un percorso che nell'ultimo anno ha posto fine a spezzoni di violenza che erano diventati quotidiani, opponendosi lui stesso, uomo di Putin, alle forze federali. Solo lui poteva farlo, perché ceceno. Nessun altro. Ed in questa alchimia strana, e per certi versi inimmaginabile, e a tratti occasionale, si è cementato il residuo e ancora tramortito orgoglio di un popolo e la coincidenza fra il desiderio di una autonomia "letteraria" e la volontà di Mosca. Questi spezzoni della realtà attuale, insieme alla tappe forzate della ricostruzione, hanno tracciato un cammino comune che permea tutta la società civile cecena. Una realtà, inevitabilmente piena di contraddizioni, ma che, come mi diceva il candidato al premio Nobel per la pace - Lidia Yusupova, nessuno ha il diritto di giudicare.
Quella realtà per cui ed in cui il rappresentante di Memorial, Akbulatov Shakhman, si permetteva nell'incontro di MIC con il portavoce di Kadyrov, Abdurakhmanov Dukuvakha, di consegnargli direttamente i tre tomi di Memorial, edizione 2006 (e che ora fanno anche parte della mia biblioteca personale e di MIC), intitolati "Qui vive la gente. Cecenia: cronaca di una violenza". Entrambi, nella stretta di mano della consegna, si ponevano il problema di chi avesse permesso lo scempio della loro "comune" Cecenia. In questa chiave di lettura va ricondotta l'attuale fase che vive la Cecenia. Ma non solo. È necessario anche comprendere quella sorta di fatalismo che traccia, solo nel breve termine, le coordinate della prospettiva generale della società cecena: "Dobbiamo cercare di realizzare quanto più possibile e capitalizzare questo periodo. Nella lunga storia della Cecenia le guerre si sono succedute ogni 50 anni. E adesso abbiamo 50 anni di fronte".
Anche in Inguscezia, in una situazione più plumbea e più "dittatoriale" rispetto alla Cecenia si è permeati delle stesse contraddizioni. Nell'ambiguità del ruolo dei vari funzionari che vivono ricucendo ogni giorno lo strappo interiore di essere "galgaj" con l'ottemperanza alle direttive moscovite, l'affermazione più scontata ed inevitabile di fronte alle discordanze concettuali ed operative è che "la risposta risiede a 1.500 chilometri a nord". A Nazran ci si sente molto meno sicuri che a Grozny. La circospezione è negli sguardi. Le divise militari che girano per la città possono essere indossate da chiunque. Le automatiche ed i kalashnikov diventano un ornamento "naturale": i poliziotti dell'albergo "Assa" li puntano addosso a Carlo per gioco. Comunque niente in confronto alla militarizzazione della nuova capitale Magas, città senza vita, pur squadrata nel suo piano architettonico esteticamente tranquillizzante. Sono militarizzate anche le "torri", simbolo della storia inguscia, sulle montagne del Caucaso: non si può arrivare se non con un preventivo permesso. Sono presidiate dai "federali": è pericoloso, secondo le autorità russe, avvicinarsi al confine georgiano. Notevole lo sforzo delle autorità locali di presentarci una realtà tranquilla: non possiamo crederci, la stessa aria fibrilla. Tutti ci consigliano di non stare da soli. Nello stesso albergo ci impediscono di prenotare un taxi per andare alla milizia per la "registratsja". Per fortuna abbiamo dei veri amici. Fra essi Ilez. Ilez come Ilias in Cecenia (e per entrambi i nomi, nelle rispettive lingue, la traduzione è "Elia") è un ex studente dell'associazione "Rondine", situata nell'omonimo borgo, cittadella della pace, a pochi chilometri da Arezzo. Diventa il nostro "tutor" e riesce ad entrare in piena sintonia con la progettualità di "confidence building" che cerchiamo di portare avanti.
Ma per fortuna ci sono anche gli occhi delle donne. Mi ricordo l'ultimo sguardo rivoltomi da una di esse mentre si allontanava dal turno di lavoro all'albergo "Assa". Avevamo parlato del più e del meno, divisi "obbligatoriamente" dal bancone della reception. Dalle rapide battute, abbiamo subito capito la conciliabilità dei reciproci modi di intendere ed interpretare la realtà, quando non mortificati dalla sovrastruttura del rispetto arcaico verso le tradizioni o dai dettami di una società esasperatamente "maschilista", almeno nella sua ufficiale esternalizzazione. Uno sguardo sereno, senza malizia: semplicemente uno sguardo di speranza in un futuro che ci riconosca cittadini dello stesso mondo, con la ricchezza, e non con l'ostacolo, delle differenze.
E per fortuna ci sono gli amici di Memorial di Nazran: Timur, Albert, Katia Shokirjanskaya. E di nuovo "il capitano" Shakhman. Ed infine Patiev che ci regala l'ultima sua fatica letteraria sulla deportazione inguscia. L'Inguscezia rimane, comunque, un paese schiacciato dai vicini, il paese "ufficialmente" più povero di tutta la Federazione Russa, un paese con i più abortiti e asfittici, fin dalla nascita, tentativi di riconciliazione interetnica. Tutto ciò perché, e soprattutto, la ferita del "Prigorodni" non riesce a rimarginarsi. Questo pezzo di terra che si estende da Vladikavkaz a Nazran, pezzo di terra inguscio regalato da Stalin agli osseti, dopo le deportazioni iniziate il 23 febbraio 1944, e mai restituito, nonostante il riconoscimento dei crimini di Stalin da parte di Kruscev e la ricostituzione della repubblica inguscia nel 1957. Il distretto, da allora, è rimasto sempre all'Ossezia del nord ed i deportati ingusci che vi fecero ritorno trovarono le loro case occupate dall'etnia osseta, che si è sempre rifiutata di riconsegnarle. Il conflitto, latente durante l'era sovietica, è scoppiato nel novembre 1992 causando centinaia di morti ed è, anche, una delle concause che è alla base della tragedia di Beslan. La delegazione di MIC ha avuto la ventura di essere presente in zona proprio nei giorni in cui si celebrava il quindicinale della commemorazione del conflitto e, contemporaneamente, durante l'esplosione delle manifestazioni di piazza in Georgia. L'attraversamento dell'Inguscezia, provenendo dalla Cecenia, ed il raggiungimento del distretto del Prigorodni (un tragitto di strada di poche decine di chilometri) ha significato sottostare ai controlli di 6 posti di blocco dei "federali", non senza le tipiche contrattazioni e spiegazioni del caso. Con ostinazione ci siamo recati nei villaggi del Prigorodni da cui, nell'estate scorsa, abbiamo ospitato i bambini delle scuole per dare avvio al primo progetto mondiale di accoglienza interetnica ed interreligiosa da quel distretto. Siamo stati, fra gli altri, nel villaggio di Tarskoe, abbarbicato alle pendici del Caucaso, sulla strada che si inerpica verso i confini con la Georgia. Tanti i convogli militari incrociati e gli sguardi diffidenti dei soldati. Scelta, non incoscienza. In questo villaggio in cui la comunità osseta cristiana ed inguscia musulmana vivono separate (diversi negozi e diverse scuole) siamo riusciti a realizzare il miracolo di incontrare assieme le due comunità ed assieme riunirci in un convivio comune. Abbiamo capito che questa è la direzione giusta e che ci aspetta molta strada da fare, nonostante gli attestati di stima e solidarietà dei vari ministeri per le nazionalità delle rispettive repubbliche: almeno, questo in teoria. Il giorno successivo, in pratica, il servizio di sicurezza federale (FSB) stava già indagando su di noi: su Carlo, su Erika e Ramiro e su quel Massimo di cui tante foto avevano visto in quei giorni sui giornali locali e addirittura alla televisione cecena. A distanza di una settimana dal rientro in Italia di Carlo e del sottoscritto, Erika e Ramiro, rimasti in Caucaso a curare i progetti di MIC, sono stati convocati dal FSB in tribunale con ingiunzione di rimpatrio per esserci inoltrati in territorio interdetto agli stranieri. Il giudizio è ancora in corso. Si spera (dopo le varie prese di posizione istituzionali) che tutto possa concludersi con una semplice multa.
I dieci giorni trascorsi nel Caucaso hanno significato per MIC il consolidarsi della sua presenza e delle progettualità proposte, rafforzando non solo i rapporti con la società civile (in primo luogo con Memorial), ma anche i rapporti istituzionali (hanno firmato accordi di partenariato con MIC i ministeri della pubblica istruzione e per le nazionalità di tutte e tre le repubbliche). Le iniziative evidenziate per il biennio 2007/2008 sono state le seguenti.
- realizzazione del progetto editoriale "Caucaso: frammenti di pace" sui personaggi e le storie incontrate dai volontari di MIC nei loro viaggi in terra di Caucaso
- stage formativo sulla cultura del volontariato e della pace per giovani delle tre etnie
- progetto "Le mani per la pace": stage formativo nel settore artigianale per giovani delle tre etnie ed apertura di microcrediti per avvio di attività di settore
- apertura di una sede di MIC in Caucaso
- accoglienza di bambini ceceni vittime di esplosioni da mina
- accoglienza interetnica ed interreligiosa dal Prigorodni
- avvio, in autonomia, della realizzazione e distribuzione del giornale interetnico "Tutti figli di Noè"
- realizzazione di una tavola rotonda e di un convegno sul ruolo della memoria come strumento di pacificazione e non di vendetta e violenza. Titolo provvisorio:"Cecenia, Inguscezia, Ossezia: la memoria per la pace". Partecipazione dei ministri per le Nazionalità delle tre repubbliche e di personaggi della società civile (i nostri tre referenti: Dzadziev Alexandr per l'Ossezia, Yakub Patiev per l'Inguscezia e Akbulatov Shakhman per la Cecenia)
- avvio della realizzazione della "Fabbrica della pace", probabilmente a Beslan, in uno splendido edificio (scoperto durante la nostra permanenza nella città) da ristrutturare all'uopo.
Mentre analizziamo queste azioni messe in campo e ripercorriamo le tappe del nostro viaggio, il taxi ci sta accompagnando da Vladikavkaz all'aeroporto. Improvvisamente la macchina rallenta: te lo ricordano anche i "poliziotti coricati" (i dossi) che frenano la marcia. Stiamo passando di fianco al cimitero di Beslan: anche qui la triste teoria delle tombe delle vittime, tutte uguali nel loro granito marrone ed imponente, sono un richiamo alla "memorializzazione" del ricordo. Ma il momento è in ogni caso struggente: il silenzio ed il rispetto sono doverosi. L'anziano autista con un gesto misurato si alza il cappello e lo riabbassa con una smorfia del viso che stempera verso la commozione. Pochi secondi di silenzio: "Lì è sepolta mia nipote, la figlia di mio figlio. Anche lei vittima dell'attacco terroristico. Non riesco a dimenticare, non si può dimenticare. Vedete quelle case laggiù: fanno parte dell'Inguscezia. Prima ci andavo. Ora non ci vado più. Prima gli ingusci erano miei amici, adesso non riesco ad esserlo. Se un mio vecchio amico inguscio venisse a trovarmi, forse gli aprirei la porta. Ma perdonare mai".
Gli ultimi cinque chilometri che ci separano dall'aeroporto, sono un po' più pesanti da percorrere. Siamo in anticipo. Decidiamo, Carlo ed io, prima di accomiatarci da Erika e Ramiro, di gustare un ottimo the locale nel piccolo bar interno. All'improvviso ci raggiunge trafelato per darci l'ultimo saluto, direttamente da Nazran, Shakhman. Ci consegna un dischetto con un testo importante di uno dei più famosi storici della Cecenia, indispensabile per capire le ragioni che hanno portato al conflitto russo-ceceno. Materiale per non dimenticare, per riflettere. Materiale da diffondere perché la storia si alimenta con l'analisi degli avvenimenti e non con l'oblio o le distorsioni preconfezionate, all'ordine del giorno nella storia di questo Caucaso, lembo lontano e dimenticato dell'identica Europa di cui facciamo parte.
Tornato a casa apro la valigia regalatami da Iliaz: tolgo i 15 chili di libri e documentazione varia. Oltre al regalo di Shakhman, degli scolari del Prigorodni e di altri amici, estraggo con molta commozione e tenerezza il tipico costume montanaro ceceno, preso dal proprio guardaroba da un anziano ceceno che ci ha accompagnato, per dei tratti, lungo i percorsi della memoria di Grozny. Penso proprio che in primavera o in estate risponderò al suo invito ed andremo a pescare lungo i fiumi che segnano le valli del Caucaso: assieme, lontano dai frastuoni e dai ricordi delle bombe. Con due lingue e due religioni diverse, ma con la stessa comprensione.
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