La visita ad uno dei tre centri collettivi del quartiere di Bagebi dove sono alloggiati i profughi della Valle del Kodori. Dal diario da Tbilisi di Irene Spagnul
Stamattina lascio l'ufficio con un paio di colleghi per andare in uno dei tre centri collettivi del quartiere di Bagebi che IOM sta ristrutturando per seguire l'andamento dei lavori e controllare la situazione. Il quartiere è piuttosto lontano dal centro, a nord-ovest di Tbilisi. Siamo vicini all'ex polo universitario e i tre centri collettivi di Bagebi sono gli ex dormitori per studenti stranieri, lasciati cadere in disuso dopo il crollo dell'Unione Sovietica.
All'entrata veniamo accolti dalla coordinatrice del centro in un grande atrio vuoto e freddo dove Maia, questo è il suo nome, ha sistemato una vecchia scrivania e una sedia. Da quando vive qui è questo il suo lavoro: accogliere i visitatori, guidarli nei meandri del buio edificio, divulgare le liste delle persone che ci vivono e in una certa maniera dare voce alle richieste degli sfollati. E' una donna molto tenera e gentile dai capelli bianchi e dal volto teso e triste.
Ci accompagna al primo piano per visitare una delle stanze. Percorriamo un corridoio buio dai muri scrostati fiocamente illuminato dalla luce esterna che proviene dalle vetrate in fondo al corridoio. Passiamo davanti a un paio di porte di legno chiuse da cui provengono un leggero calore e dei suoni vagamente casalinghi. Maia apre una delle porte e ci fa entrare. Siamo in quattro ed è difficile stare comodamente nella piccola stanza che ci troviamo davanti perché occupata anche dalle sei persone che ci vivono. Due bambini, i loro genitori e i loro nonni vivono da quattro mesi in una stanzetta di non più di 25 m2 in cui sono sistemati anche due grandi letti, un tavolo, un piccolo armadio e alcuni scatoloni accatastati. Ci sono solo un paio di sedie molto malmesse e una piccola piastra elettrica su un tavolino di ferro per cucinare. Nonostante la situazione disperata, siamo accolti col sorriso. "Non abbiamo sedie, non sappiamo dove sederci", ci spiega la mamma dei bimbi mentre accarezza la testolina di uno dei figli, "e mangiamo solo pastasciutta da tante settimane". Poi ci fa vedere le scarpe ai piedi del figlio che sono estive, eredità della migrazione di agosto dopo la guerra, e non sono state sostituite da scarpe invernali per mancanza di soldi.
Mentre parliamo, una donnina sulla settantina, la nonna della famiglia, ci osserva silenziosa da un angolo della stanza, con occhi curiosi e rassegnati a malapena visibili tra la sciarpa legata attorno al collo e il fazzoletto che le copre il capo.
Usciamo e proseguiamo lungo il corridoio, saliamo al secondo piano e ci fermiamo sul pianerottolo perché Maia ci vuole mostrare le condizioni dei bagni. A malapena ci possiamo avvicinare per il cattivo odore ma riusciamo a constatare la terrificante situazione che gli abitanti di questo edificio sono costretti ad affrontare ogni giorno: vetri rotti, tubature fuori uso, servizi igienici totalmente indecenti, acqua sporca sul pavimento. Una ragazza esce dai bagni con dei panni bagnati e Maia vedendola ci spiega che c'è un unico bagno con un solo lavabo per ogni piano (per circa 40 persone per piano) e che questo è utilizzato per l'igiene personale, per lavare le stoviglie e i panni. Sono costernata.
Proseguiamo lungo il corridoio del secondo piano fino alla stanza di Maia che viene usata anche per ricevere i visitatori. E' piccola e povera ma pulita, ordinata e calda. Trasuda dignità. Mi siedo su un piccolo divano. Di fronte a me un tavolino di legno grezzo dove spicca un piattino con della frutta evidentemente vecchia ma ancora leggermente colorata.
Maia ci spiega che tutti i 130 sfollati che occupano questo centro provengono dalla valle di Kodori che si trova sul confine amministrativo tra Abkhazia e Georgia. "Kodori è un paradiso terrestre, ci racconta Maia con le lacrime agli occhi, possedevo una grande casa colonica di due piani e un grande terreno con orto e frutteto." Oggi Kodori è sotto il controllo dell'esercito russo e nessuno osa tornare. Solo 11 famiglie hanno fatto ritorno a casa ma non si hanno loro notizie.
Questo centro collettivo è uno dei tanti che hanno beneficiato di un progetto congiunto di UNICEF e di CHCA, una ONG locale, per l'apertura di spazi ricreativi per bambini. Ne vedo uno mentre scendo le scale per ritornare al pianterreno: in una stanza piuttosto piccola delle sedie, una lavagna, un paio di tavoli e tanti disegni attaccati alle pareti. E' chiusa a chiave altrimenti sarei entrata per vedere con i miei occhi che tipo di disegni escono dalle menti e dalle mani di bambini che hanno vissuto una tragedia simile.
A proposito di bambini, l'ultima richiesta di Maia è quella di un po' di dolci, "almeno per Natale", ci prega.
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