La ricerca dei tratti dell'ebraismo kišiano e l'importanza della cultura ebraica per la poetica e il senso d'identità dell'autore, sono i temi di fondo di questa tesi di dottorato
di Anita Vuco
Questa tesi di dottorato su Danilo Kiš, rielaborando principalmente i materiali d'archivio dell'Autore, desidera individuare i tratti dell'ebraismo kišiano e mettere in rilievo l'importanza della cultura ebraica per la sua poetica e per il suo senso d'identità (nonostante il fatto che Kiš non si dichiara mai "ebreo" e accentua invece la propria condizione di "bastardo").
Ho scelto di occuparmi di Danilo Kiš dal punto di vista della scrittura perché più volte egli stesso ammette che è stata proprio la scrittura letteraria l'unica a permettergli di ricostruire un nuovo ordine simbolico, all'interno del quale orientarsi, dopo la distruzione della sua famiglia. E perché nella ricerca della propria identità egli riesce a raggiungere l'identificazione con il padre solo grazie alla scrittura dei suoi romanzi.
Il lavoro è stato diviso in tre capitoli.
I - Scrittura come cifratura del reale - dove per cifratura del Reale riprendo la ricerca svolta da parte di Kiš per creare un nuovo ordine simbolico con la letteratura e la sua identificazione con lo scrittore dell'Europa centrale perché è ciò che gli consente di uscire dalle logiche nazionaliste ed etnocentriche, identificandosi invece con la condizione di bastardo, dell'individuo senza patria (dove per patria si intende la patria nel senso tradizionale, romantico del termine). Danilo crede d'avere trovato le sue radici, la sua patria, nella letteratura e nella lingua. Ammette che sarà proprio la sindrome di Heimlichkeit, ossia la sua inquietante diversità, lo stimolo maggiore della sua creatività. Tematizzo la sua elaborazione del concetto d'identità come qualcosa di immaginario che viene dall'Altro, e tematizzo il suo modo particolare di sentirsi ebreo. "Conosco la cultura ebraica soltanto dai libri - dice Kiš in un'intervista del 1988 - però c'è qualcosa di involontariamente ebraico in quello che scrivo, quasi cabalistico a volte..." Il capitolo prosegue con la ricostruzione dell'apprendistato letterario dello scrittore e si chiude con quelli che sono i suoi interrogativi fondamentali: quali temi sono degni di una rappresentazione letteraria; come fare a rappresentare il Reale senza il coinvolgimento emotivo; quale è il rapporto tra Verità e finzione - cioè, se per rappresentare una Verità insondabile è necessario ricorrere alla finzione letteraria; che uso letterario fare poi del documento che, nella finzione letteraria, diventa necessario per creare l'effetto di verismiglianza?
II - Nel secondo capitolo: Scrittura come ricordo, il discorso ruota attorno ai romanzi della trilogia familiare che diventano un vero e proprio cenotafio, per ricordare il padre. Kiš per un verso scopre che i ricordi personali sono inaffidabili, dall'altro prosegue l'esperimento di una scrittura "documentaria" attraverso la quale prende ai nostri occhi forma la figura di Eduard Sam, di cui l'Autore ci riporta gli attributi di un corpo che resta inafferrabile: i suoi occhiali, il suo bastone, la sua aktentašna, il pigiama a righe, i fogli a quadretti per le lettere, gli erbari, il fumo delle sue sigarette Simphonya ... le sue depressioni autunnali, il suo lunatismo, la sua polemica con il mondo, con il Signore, ma soprattutto la sua straordinaria capacità di sostenere finissime discussioni e di irridere la stessa situazione drammatica che lo travolgerà. Attraverso questa ricerca emergono in modo marcato tratti, accenni, allusioni, paragoni, materiale narrativo in generale che collega tutta la vicenda narrata e lo stesso Eduard al mondo ebraico. Il modo di Kiš figlio di parlare del padre come ebreo è un modo che programmaticamente rifiuta di nominare le cose esplicitamente, poiché il non nominare i dettagli umilianti per la vittima significa conferire dignità all'uomo. Nello stesso tempo, però, come una filigrana nascosta nel foglio di carta su cui scrive, emergono qua e la, ma in posizioni chiave, significanti che connotano in modo marcato tutto quanto succede come una vicenda ebraica - direi allo stesso modo in cui il testo di Joyce nasconde una rete di allusioni alla sua identità di irlandese cattolico.
III - Nel terzo capitolo: Scrittura come memoria, affronto la questione di come Kiš non sia interamente riuscito a metabolizzare con il ricorso alla scrittura il trauma della sparizione del padre e delle vicende che ne sono state lo sfondo. Egli stesso si mostra consapevole di questo residuo di ossessione e cerca di articolarlo spostando l'accento dalla vicenda famigliare alla vicenda della violenza dell'uomo in sé. Per far questo scrive sui lager sovietici il romanzo Una tomba per Boris Davidovič, il cui stimolo gli viene dalla polemica con intellettuali di sinistra francesi che pur condannando senza mezzi termini la violenza nazista chiudono gli occhi davanti a quella stalinista. La scrittura anche in questo caso serve per seppellire tanti che sono morti di una morte violenta, per salvare dall'oblio storie e drammi di uomini che altrimenti rischierebbero di venire dimenticati. Vite stritolate questa volta dal sistema di repressione sovietico, la denuncia dei cui meccanismi valse una feroce polemica in patria contro lo stesso Kiš.
La tesi si conclude con una serie di Appendici, fra le quali al 1° posto figura una cronologia delle opere di Kiš; segue la biografia dello scrittore; una breve autobiografia (Estratto di nascita - un breve testo scritto da Kiš nel 1983 che permette di vedere, in solo due pagine, ciò che lo scrittore stesso considerava importante per la sua identità); infine abbiamo la lista dei libri contenuti nella sua biblioteca personale dalla quale si evince l'interesse spiccato per la tematica ebraica. Sul suggerimento della prof.ssa Janja Jerkov, e per valorizzare il lavoro di traduzione dei materiali kišiani, sono state aggiunte in Appendice anche tutte le citazioni prese da varie interviste o dal materiale d'archivio, anche se già apparse nei singoli capitoli.
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