Un paper scritto in seguito alla Scuola Estiva in Relazioni Internazionali organizzata a Sarajevo-Mostar-Belgrado dall'AESI (Associazione Europea Studi Internazionali) - luglio 2002. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

26/07/2007 -  Anonymous User

Gianluca Serra

Il noto assioma - attribuito a Winston Churchill - secondo cui i Balcani sarebbero capaci di produrre più storia di quanta non riescano a metabolizzarne, comporta, come corollario, la difficoltà per gli storici di mettere "ordine" e dare un "senso" al complesso ed intricato divenire di eventi che in questa regione si sono dipanati fin dal medioevo.

La dialettica tra l'uno ed il molteplice si presta come categoria di analisi -e prima ancora di pensiero- per rileggere, reinterpretare e raccontare in modo inedito la storia dei Balcani. Il presente contributo si propone appunto di inquadrare il background storico moderno e contemporaneo (e finanche di cronaca)- della ex Jugoslavia, sineddoche dei Balcani, attraverso la filigrana del suo underground ideale di persistente scontro tra forti tentazioni identitarie e di esclusione, da una parte, e generosi, ma fallimentari, tentativi di integrazione e coesistenza dall'altra.

Le guerre che, dal 1991 al 1999, hanno seminato sul territorio della ex RSFJ orrori e barbarie che l'Europa si era illusa aver definitivamente superato attraverso la "catarsi collettiva" di Norimberga, sarebbero state, in base alla chiave di lettura di Huntington, delle manifestazioni locali di "guerre di faglia" tra mondo latino-cattolico e mondo cirillico-ortodosso (sloveni e croati vs serbi) e tra mondo cristiano e mondo islamico (serbi vs bosniaci musulmani e kosovari albanesi).

Per quanto seducente, quello descritto resta comunque uno schema riduzionistico, che coglie solo in minima parte la complessità dello specifico divenire dei popoli jugoslavi. La causa prima della fragilità geopolitica della regione balcanica sud-occidentale non sarebbe da ricercarsi nell'esistenza - pur indubitabile - di faglie tra civiltà diverse, bensì in una concezione della nazione che tali faglie ha dapprima divaricato ed approfondito e poi violentemente fatto scontrare.

Presso le genti della ex Jugoslavia, l'idea di nazione mai è riuscita a sottrarsi alla tentazione romantico-herderiana di una interpretazione "naturale" di se stessa: "gli anziani (...) si curvano sulla carta geografica che indica la nuova divisione della penisola balcanica. Guardano la carta e tra quelle linee tortuose non scorgono niente, eppure sanno e comprendono ogni cosa, perché hanno la loro geografia nel sangue e posseggono una percezione biologica della configurazione del mondo" (Ivo Andric, Il ponte sulla Drina, 1945).

La nazione è rimasta etnia, cioè comunità che pretende di essere pre-politica, originaria, in cui i diritti umani sono riconosciuti e garantiti solo su base etnica, in quanto diritti nazionali, e in cui sono del tutto legittime l'esclusione, la discriminazione e persino l'eliminazione dell'altro, dell'etnicamente diverso. Durante la fase di socialismo reale, la nazione etnica è stata, ma solo in apparenza, sublimata in un'altra forma di appartenenza -quale la classe sociale- anch'essa con pretese di naturalità e non meno dannosa per i diritti umani. Lo Stato-nazione inclusivo introdotto dalla rivoluzione francese, inteso come comunità politica volontaria, che raccoglie uomini e gruppi diversi attorno al principio di cittadinanza, attorno all'universalismo dei diritti, per cui prima si dà l'uomo, poi lo si declina come "cittadino" e solo, da ultimo, si aggiungono, ma senza finalità discriminatorie, apposizioni etniche ("serbi", "albanesi"...): ecco la vera lacuna della storia balcanico-jugoslava.

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