Una ricerca che mette a confronto il ruolo dei media nella fase di transizione di Albania, Repubblica Ceca e Polonia. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Di Paolo Carelli
Tra i tanti fattori politici, economici, culturali, finanche strutturali, che determinarono il collasso e la disgregazione di un sistema, quello dell'Unione Sovietica e delle "democrazie popolari" dell'Europa dell'Est, arroccato a difesa di un modello sociale idealmente puro, ma drammaticamente illusorio, un ruolo di grande rilevanza è stato giocato dai mezzi di comunicazione di massa. E' grazie alla copertura degli eventi garantita dai media, parzialmente liberalizzati durante la stagione della glasnost, che è stato possibile assistere a quella straordinaria concatenazione di rivolte, susseguitesi da un Paese all'altro secondo le regole dell' "effetto-domino" teorizzato da Huntington, che ha caratterizzato l'autunno 1989. Assolvendo, nello stesso tempo, ad una funzione di testimonianza e di formazione di una coscienza collettiva, i media est-europei (la televisione in particolare) hanno accelerato la caduta dei regimi, diventando poi variabile fondamentale nella transizione dal comunismo al post-comunismo e nell'instaurazione e consolidamento delle rispettive democrazie.
All'interno dell'ex blocco socialista, tuttavia, i percorsi di democratizzazione si sono sviluppati lungo direttrici profondamente diverse tra loro, legate perlopiù alle scelte operate in campo economico ed istituzionale all'indomani della rivoluzione, ed al grado più o meno accentuato di repressione durante gli ultimi anni del regime. Albania, Repubblica Ceca e Polonia rappresentano, da questo punto di vista, tre esempi di transizioni differenti tra loro nei modi e nei risultati. Nel Paese delle Aquile, il passaggio alla democrazia è stato lento, tortuoso, ostacolato da instabilità finanziarie, corruzione, ripetuti scandali e brogli elettorali. La Repubblica Ceca, al contrario, è stata artefice di una democratizzazione rapida, tutta votata all'implementazione di modelli economici e sociali tipicamente liberisti ed occidentali. La Polonia, infine, ha percorso un cammino anomalo, iniziato da lontano con l'opera di Solidarnosc e l'appoggio decisivo della Chiesa Cattolica, ma paradossalmente lento, perché frenato da continue regressioni poco inclini agli standard democratici, non ultima l'occupazione delle due più alte cariche dello Stato da parte dei gemelli Kaczynski, Lech e Jaroslaw.
In questi 18 anni trascorsi dalla caduta dei regimi e dall'avvio di riforme economiche e istituzionali, qual è stato il comportamento dei mezzi di comunicazione? I mutamenti legislativi del settore hanno davvero condotto ad una piena libertà di stampa ed espressione? E ancora, a che punto è la diffusione di nuove tecnologie? Lo sviluppo delle Ict è stato coerente con le necessità di riduzione del cosiddetto "digital divide", ovvero quel parametro che segna il divario tra chi vi ha accesso e chi no?
Affrontando il tema da una prospettiva multidimensionale, appare innanzitutto evidente come nei Paesi dell'Europa orientale i nuovi modelli di comunicazione politica consolidatisi negli ultimi anni si siano sempre più spostati verso una relazione biunivoca tra sistema politico e sistema dei media, escludendo il terzo attore, quel sistema della cittadinanza che dopo gli entusiasmi iniziali, è tornato a comprimersi nel silenzio, nell'apatia, nella mancata partecipazione al dibattito pubblico, lasciando i media (e i grandi gruppi finanziari che li controllano) ed il sistema politico a contendersi la scena.
In Albania, il mondo della carta stampata è rimasto inizialmente un riflesso delle élites fuoriuscite dal regime e solo nel 1997 è stata varata una legge sulla libertà di stampa. Tuttavia, il pluralismo dell'informazione, vagamente garantito dalla legge, si scontra con il paradosso di un'assenza delle condizioni culturali e strutturali perché esso possa compiersi realmente. "I media albanesi - osserva Ilda Londo, ricercatrice all'Albanian Media Institute - si sono trovati nella situazione per cui c'è libertà di stampa, ma non una stampa libera". Censure ed intimidazioni ai danni di giornalisti sono all'ordine del giorno; l'Albania occupa l'80° posto nella graduatoria della libertà di stampa redatta da Reporters sans frontières. Diverso il caso del settore radio-televisivo, dove a partire dalla metà degli anni '90, il crollo delle cosiddette "piramidi finanziarie" ha spianato la strada ad una proliferazione di piccole emittenti televisive resa possibile anche da una deregolamentazione nel campo delle licenze. Oggi l'Albania è il Paese europeo con la più alta densità di emittenti televisive per numero d'abitanti; emittenti che nella maggior parte dei casi operano su ristrette basi regionali o distrettuali, e che sembrano essere figlie di quella che il cronista di "Repubblica" Andrea Cairola, in una bellissima inchiesta di qualche anno fa, ha chiamato "utopia di una televisione fatta con poco". Nel turbine di questo liberismo sfrenato del settore radio-.televisivo, è stata trascinata anche Radio Televize Shiqptare (RTSH), l'emittenza statale che ha finito per competere con le tv private su un terreno commerciale; perso il monopolio, l'ex canale unico ha così perso l'occasione di trasformare la propaganda del regime nella diffusione di valori culturali e d'identità nazionale. Drammatico è invece il quadro delle Ict: l'Albania soffre una cronica mancanza d'attenzione a linee coerenti di sviluppo del settore. Quasi tutti i cittadini albanesi hanno un telefono cellulare (90%) e quasi nessuno può disporre di una connessione internet (l'1% nel 2004 ed il 2,4% nel 2006). Facile dunque immaginare quale sia una delle motivazioni del ritardo economico e culturale del piccolo Paese balcanico. Un problema devastante cui il governo sta cercando di porre rimedio partendo dalle giovani generazioni: il progetto E-Schools punta ad una diffusione capillare di internet nelle scuole entro la fine del 2008.
La Repubblica Ceca ha affrontato la trasformazione del sistema mediatico con le stesse armi con cui ha messo mano alla riforma economica: quelle di un liberismo puro ispirato alla tradizione thatcheriana. Una soluzione che ha portato alla netta separazione tra media e sistema politico, in pieno stile britannico. Nel 2001, la nomina di un esponente politico a capo del Consiglio Nazionale della Radio e Televisione (RRTV) ha scatenato uno sciopero generale dei giornalisti della tv di Stato Czech Tv; una protesta che è stata appoggiata da ampie schiere di intellettuali e gente comune, che vedevano nella possibile politicizzazione dell'emittenza pubblica i fantasmi di un ritorno ad un sistema mediatico controllato come ai tempi del regime. Oggi, la Repubblica Ceca occupa il quinto posto nella classifica di Reporters sans frontières, primo tra i Paesi dell'ex blocco socialista e davanti a tante realtà di secolare tradizione liberale. La tv commerciale supera di gran lunga quella pubblica, che si è vista costretta ad inseguire, livellando la programmazione su palinsesti marcatamente occidentali. Il digitale terrestre, inoltre, è arrivato ad una copertura del 35% del territorio nazionale, tra le più alte d'Europa, assicurando una moltiplicazione dei canali ed un incremento del pluralismo, delle possibilità di scelta, delle modalità di fruizione ed interattività. Dal punto di vista dello sviluppo tecnologico, un cittadino su due in Repubblica Ceca ha accesso ad Internet e le istituzioni hanno da anni avviato percorsi per garantire la connessione da luoghi pubblici (solo nel 2004, 1.700 biblioteche pubbliche sono state dotate di accesso alla rete).
Infine, la Polonia che, nonostante l'ingresso nell'Unione Europea, persegue nel mantenimento di una legislazione restrittiva in materia di libertà di stampa ed espressione, che l'ha fatta scendere al 58° posto del ranking mondiale di Reporters sans frontières. L'anomalia del sistema mediatico di Varsavia consiste da sempre in un'eccessiva tutela delle istituzioni statali e di organismi religiosi legati alla Chiesa cattolica. Basta una semplice critica negativa nei confronti di esponenti "protetti" dalla legge per finire in carcere o subire minacce ed intimidazioni. Sfumati gli entusiasmi dell'epoca di Solidarnosc, oltretutto, la popolazione polacca ha smarrito la propulsione alla richiesta di riforme e di partecipazione, preferendo volgersi ad altri ben più stringenti problemi, che rispondono ai nomi di situazione economica al limite della sopravvivenza e tasso di disoccupazione più alto dell'intera Ue. La disaffezione nei confronti della politica e dei partiti tradizionali (secondo una ricerca condotta da Hieronim Kubiak, professore di Sociologia all'Università di Cracovia, già nel 1995 il 65% dei polacchi riteneva che nessuno degli oltre 270 partiti esistenti fosse in grado di rappresentare i propri interessi) non ha fatto altro che facilitare e consolidare questo sistema di cose. La Polonia ha vissuto il paradosso di avere un'eccessiva frammentazione del sistema partitico all'indomani della caduta del regime, che non è stata però accompagnata da altrettanta partecipazione popolare, con il risultato di avere una scarsa rappresentanza della cittadinanza, delle associazioni, delle organizzazione diverse dai partiti, delle stesse minoranze etniche e linguistiche, all'interno dei mass-media. In un Paese dove una vera liberalizzazione ha stentato a decollare, i media commerciali (soprattutto per quanto riguarda il sistema radio-televisivo) hanno sempre arrancato nei confronti dell'emittenza pubblica, che ha mostrato due facce della stessa medaglia: tanto volta alla diffusione di valori culturali ed identitari condivisi, quanto pericolosamente controllata dalle istituzioni statali e religiose.
La geografia mediatica dell'Europa orientale si presenta quindi molto variegata ed eterogenea. La regola generale, peraltro propria di ogni democrazia liberale, sembra quella di una compenetrazione tra il sistema dei media e quello del potere. Ma dove per decenni gli uni non sono stati altro che riflesso incondizionato dell'altro, i pericoli maggiori sono due: da un lato, il rischio di un ritorno ad una situazione di controllo governativo, dall'altro, come reazione, un'eccessiva liberalizzazione del settore poco diretta istituzionalmente e difficilmente gestibile. Un ritorno del sistema della cittadinanza sull'arena del dibattito pubblico e del processo decisionale può essere favorito solo dallo sviluppo delle nuove tecnologie, purchè in linea con i principi di economicità ed usabilità.
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