Negli ultimi anni della Jugoslavia i rapporti con l'Italia erano sensibilmente migliorati. Poi la guerra di disgregazione e la nostra politica estera che ha cercato di ritagliarsi un ruolo. Una tesi di laurea. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Nel 1991 in Jugoslavia esplose il conflitto che portò il paese alla dissoluzione. La comunità internazionale scese in campo per riportare l'ordine. Gli eventi non lasciarono indifferente l'Italia, che cercò di agire attivamente nel tentativo di inaugurare una politica di influenza nell'area. Diverse ragioni portarono al fallimento dell'iniziativa ed alla sua marginalizzazione.
La tesi di laurea intende indagare le politiche del governo italiano al riguardo, tenendo in considerazione anche le istanze regionali.
Dopo anni di gelo diplomatico, nel periodo antecedente la crisi jugoslava i rapporti tra i due paesi erano decisamente migliorati. L'interscambio economico era florido e si auspicava che la Jugoslavia potesse diventare una vera e propria porta per la penetrazione in Est Europa delle aziende italiane. In favore di questa visione, l'Italia si rese sponsor di iniziative multinazionali tra cui la Quadrangolare.
In questo contesto, la disgregazione della federazione era un'eventualità da scongiurare. Quando Slovenia e Croazia iniziarono a palesare la volontà di secessione, la Farnesina si mise in moto cercando di ritagliarsi un ruolo negoziatorio e probabilmente di volgere gli eventi a proprio favore. De Michelis rivestì un ruolo chiave in questa fase. Come ministro degli Esteri, egli profuse molte energie nel promuovere una soluzione unitaria e coinvolgere la Comunità Europea, che in quel momento stava affrontando una importante riflessione sul proprio futuro.
Nonostante ciò, all'inizio del 1992 l'Italia riconobbe l'indipendenza di Slovenia e Croazia, fortemente auspicata dalla Germania.
Il cambio di posizione è probabilmente da attribuire al lavoro di lobby delle classi politiche ed economiche del Triveneto, da sempre favorevoli all'indipendenza delle repubbliche secessioniste per ragioni economiche.
Con il riconoscimento delle due repubbliche, la situazione in Jugoslavia si aggravò. I dissidi presero sempre più la forma di conflitto tra etnie. Il fallimento delle politiche pacificatrici della Comunità Europea rese sempre più centrale l'operato dell'Onu, ed in seguito della Nato.
L'Italia, che intanto era entrata in una fase di forte crisi politica, venne totalmente esclusa dal processo negoziale.
Dal punto di vista dell'interesse dell'opinione pubblica, dopo il boom mediatico iniziale, l'attenzione per un conflitto sempre più considerato come un'incomprensibile brutalità andò scemando.
L'Italia rimase centrale per gli aspetti tecnici della guerra, specialmente quando il coinvolgimento della Nato si fece più intenso, diventando vera e propria base logistica delle operazioni militari. In luce di ciò, la Farnesina parve illudersi di avere ancora una parvenza di ruolo negoziale. L'esclusione dal foro decisivo di mediazione del conflitto, il Gruppo di Contatto, mostrò i fatti per come erano e venne percepito come una cocente delusione.
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