La presidente croata Grabar-Kitarovic ha sfrattato il bianco busto di Tito ed altri oggetti del leader jugoslavo dal palazzo presidenziale zagabrese. Le reazioni. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
Le promesse (elettorali) vanno mantenute: e così la neo-presidente croata Grabar-Kitarovic ha sfrattato il bianco busto di Tito ed altri oggetti del leader jugoslavo dal palazzo presidenziale zagabrese, il Pantovcak. Suscitando le ire dell’Unione degli antifascisti croati (Saba), che vede nella rimozione la negazione dell’antifascismo titoista proprio nell’anno in cui si celebrano i 70 anni della vittoria partigiana sui nazisti. La presidente si è difesa distinguendo l’antifascismo dal titoismo, anche se – storicamente – tale separazione risulta ben difficile da sostenere.
Ma tant’è: simbolicamente la Grabar-Kitarovic vuole sottolineare come la Croazia sia divenuta un paese decisamente post-jugoslavo, anzi – per dirla tutta – un paese che è stato jugoslavo, ma solo suo malgrado. Perché costretto in una struttura autoritaria, dato che per lei (ed il suo partito, l’HDZ) Tito è stato semplicemente un dittatore.
Il rapporto con lo jugoslavismo ed il comunismo titoista è sempre stato sfaccettato e complesso per i croati. Storicamente alla fine dell’Ottocento la Croazia venne definita la Toscana jugoslava perché fu il cuore culturale e linguistico del movimento jugoslavista (grazie alle figure di Racki e Strossmayer) in nome dell’unità croato-serba. E la Croazia poté configurarsi per la prima volta come Stato proprio quando nacque la prima Jugoslavia, quella monarchica apparsa nel 1918.
Tuttavia, nonostante lo stesso Tito fosse un croato delle Zagorje, vi fu sempre, in Croazia, un movimento carsico di tendenze antiserbe, antijugoslave, anticomuniste. Che trovò spazio nell’antico partito dei diritti di Starcevic e nelle continue tensioni antibelgradesi all’interno del Regno jugoslavo, così come poi nello spietato collaborazionismo ustascia di Ante Pavelic. E perfino nella Jugoslavia socialista la situazione fu tutt’altro che tranquilla, come dimostrarono l’attività degli esuli anticomunisti (che poi finanziarono l’HDZ), gli attentati terroristici e la storia dal sapore quasi indipendentistico della cosiddetta primavera croata (hvratsko proljece) del 1971, poi repressa da Tito e dalla Planinc. E nell’85 una ricerca sociologica fatta tra i giovani di Spalato aveva constatato quanto il titoismo fosse già in fase di demitizzazione, al di là del ritualistico “dopo Tito, Tito”.
Tudjman negli anni ottanta semplicemente approfitta della necrosi del comunismo jugoslavo per smantellare il passato con un disinvolto revisionismo storico raccogliendo altresì tutti quegli umori anticomunisti, antiserbi ed antijugoslavi che si erano sedimentati nel tempo. L’attuale presidente riprende orgogliosamente il discorso sulla “croaticità” (anche dei serbi di Croazia!) e tenta di disfarsi dei simboli di un passato (titoista, jugoslavo e comunista) che continua ad essere sempre troppo ingombrante. Talmente ingombrante da provocare (ancora oggi) polemiche e passioni inattese.