Un'immagine tratta da "Vukovar, jedna prica"

Il cinema come strumento per elaborare i conflitti: il caso Jugoslavia. Letture della Seconda Guerra Mondiale e delle guerre degli anni '90 attraverso alcuni film. Un contributo del nostro esperto di cinema Nicola Falcinella

09/11/2007 -  Nicola Falcinella

Come dopo la Seconda guerra mondiale, anche per le guerre degli anni '90 è il cinema lo strumento privilegiato per elaborare il conflitto e i lutti nella coscienza collettiva. Allora lo spazio fu dei film sostenuti dallo Stato e anche della propaganda, fino ad arrivare a prodotti di genere - il poliziesco di Aleksandar Djordjevic o il western di Hajrudin Krvavac - che con i cinema di guerra o "di partigiani" aveva poco da spartire. Ora sono i registi indipendenti, per lo più sostenuti da fondazioni e coproduzioni occidentali, a portare sullo schermo drammi che spesso hanno vissuto in prima persona. Agli eroi, individui o comunità (villaggi o gruppi partigiani), di un tempo fanno da contrasto, nella ricostruzione cinematografica, gli antieroi dell'epoca recente, spesso colti nel loro individualismo distruttivo. Una guerra in cui le cose almeno sullo schermo erano chiare - il nemico era l'invasore tedesco e nazista con i collaborazionisti - si contrappone a una dove il vicino e il fratello si massacravano a vicenda.

In entrambi i casi - non affronteremo qui i pur numerosi film sulle guerre contro i turchi (tra i recenti grandi successi di pubblico in Serbia c'è "Zona Zamfirova" di Zdravko Sotra) o del primo conflitto mondiale - le trasposizioni cinematografiche iniziano tempestivamente. Nel '47 - '48 escono già pellicole come "Slavica" di Vjeko Afric o "Sulla propria terra - Na svoji zemlji" di France Štiglic: c'è in esse una venatura intimista che per lo più si perderà negli anni seguenti per lasciare spazio alle imprese eroiche dei parigiani. Storie che fino a tutti gli anni '70, praticamente fino alla morte di Tito, hanno costituito una buona fetta della produzione locale. Negli anni '90 i film giungono poco dopo lo scoppio delle guerre. "Dezerter - Disertore" denuncia di Zivojin Pavlovic della posizione prese dall'esercito nel momento di sfaldamento della federazione è del '92. Vukovar, una delle tante città martiri, è fin dal titolo protagonista di tre film a ridosso dei combattimenti: il serbo "Vukovar, jedna prica - Vukovar, una storia" (1994) di Boro Draskovic e i croati "Vukovarski memento - Il ricordo di Vukovar" (1993) e "Vukovar se vraca kuci - Vukovar torna a casa" (1994) di Branko Schmidt. I fantasmi dell'odio atavico e le paure di un peggio che si annuncia pervadono "Pre kise - Prima della pioggia" (1994) del macedone Milco Mancevski, una delle pellicole di maggiore risonanza negli anni delle guerre.
Senza esaminare nel dettaglio filmografie e opere, un'altra differenza è che nel periodo del "cinema titino" molti cineasti si specializzarono in film di guerra o di propagnanda. Alcuni di loro erano stati partigiani (come Vratoslav Mimica, il più grande animatore jugoslavo, o lo stesso Stiglic) o dalla lotta partigiana erano stati dirottati al cinema per raccontarne in immagini l'epopea. Altri, autori con la A maiuscola come l'Aleksandar Petrovic di "Skupljaci berica - Ho visto anche zingari felici" (1967), si sono dedicati all'inizio della loro carriera a film di guerra, come l'ottimo "Tri" (1965), con tre storie - ambientate all'inizio, a metà e alla fine della guerra - con l'immancabile Bata Zivojinovic protagonista.

La distanza tra i film di guerra e gli altri era allora marcata. Se i racconti dei combattimenti erano enfatici ed eroici, incentrati sullo sforzo di opposizione al nemico, nei film di altri generi si respirava raramente il clima di combattimento o le conseguenze della guerra. Oggi il cinema bellico non può essere considerato un genere vero e proprio all'interno della filmografia dell'area ex jugoslava. Così le conseguenze dei massacri, degli scontri, degli stupri, degli assedi, delle paure e della mancanza di libertà pervadono quasi tutti i film.

Un'altra differenza sta nella scelta degli interpreti. I partigiani dello schermo avevano famiglie o donne che li aspettavano a casa, erano uomini tutti d'un pezzo. Non a caso gli attori più ricorrenti erano Bata Zivojinovic e Ljuba Tadic. A volte si ricorreva a star americane, come Rod Taylor in "Partizani" (1974) di Stole Jankovic, Yul Brinner e Orson Welles nel kolossal "La battaglia della Neretva - Bitka na Neretvi" (1968) di Veljko Bulajic e soprattutto Richard Burton in "Sutjeska - La quinta offensiva" (1973) di Stipe Delic (con la collaborazione del russo Sergei Bondarchuk, esperto in filmoni epici). L'ex marito di Liz Taylor prestò gli occhi azzurri e l'espressione inscalfibile al maresciallo che liberò la Jugoslavia in una ricostruzione epica di una delle battaglie decisive della guerra. Fu il più costoso film dell'ex Jugoslavia e, nonostante i difetti e il manicheismo nel tratteggiare i tedeschi, ha momenti toccanti e riesce a rievocare la drammaticità di quei momenti.

I film degli anni '90, non solo quelli di Kusturica e Paskaljevic che sono stati tra i risultati artisticamente più alti, hanno avuto come "eroi" Miki Manojlovic e Lazar Ristovski. Attori con già una carriera alle spalle, incarnazioni di un tipo maturo, sopra le righe e vitalistico. Una follia "buona", in un certo modo positiva, che si contrappone a quella sterile presente in quasi tutte le pellicole realizzate dal 2000 in poi. Come incarnazione di questa tipologia umana si possono citare il bosniaco Emir Hadzihafisbegovic (è il generale di "Karaula" di Rajko Grlic e il padre in "Armin" di Ognjen Svilicic, era in "Remake" di Dino Mustafic) e il serbo Srdjan Todorovic ("Jagoda u Supermarketu - Jagoda: Fragola al supermercato" di Dusan Milic o "Sivi Kamion crvene boje -Camion grigio colorato di rosso" di Srdjan Koljevic). Gran parte dei film recenti ha un tocco grottesco o quasi parodistico, che la cinematografia del passato, molto più composta anche quando ritraeva lo spirito libero e vitale dei Balcani, non aveva. Quasi tutti i film di questi anni presentano il reduce disadattato, il pazzo, il mutilato oppure genitori che hanno perso il figlio, ragazzi che non conoscono i padri, donne stuprate ("Grbavica" di Jasmila Zbanic).

I "film di partigiani", pur con caratteristiche comuni, non rispondevano a un solo modello. A volte di sente un influsso straniero: "Mars na Drinu" ha echi de "La grande guerra" di Monicelli con personaggi che combattono anche contro voglia ma alla fine si comportano eroicamente, o "Most" di Krvavac ha un respiro che potrebbe essere di Robert Aldrich.

I film di oggi, pur nelle differenze, sembrano un po' autorigenerarsi. Senza arrivare al caso di "Živi i mrtvi - I vivi e i morti" (2007) coproduzione bosniaco-croata di Kristijan Milić che va a riprendere il parallelo di "Remake" (2002) di Dino Mustafic, ovvero che l'ultima guerra è una riedizione di quella mondiale. Elementi già nel sontuoso "Underground": là di fatto lo scontro non era mai finito, era sprofondato nel sottosuolo della Guerra fredda. L'elemento della sgangheratezza, della perdita del controllo sugli eventi. A combattere sono sempre piccoli gruppi, pattuglie. Non i grandi numeri di "Kozara" (anche qui rievocazione di una delle battaglie decisive) o dello stesso "Igmanski mars" di "Sotra". Diverse le guerre, certo, ma anche le condizioni produttive: per "Bitka na Neretvi" o "Sutjeska" e in altri l'esercito fornì tutte le attrezzature, i mezzi e le armi. Si differenzia il "neorealismo" poetico di "Savrseni krug" (1996) di Ademir Kenovic su sceneggiatura di Abdulah Sidran. Il primo film nella Sarajevo subito dopo la fine dell'assedio con le profonde ferite ancora ben visibili e un pessimismo totale.

Ci sono poi differenze nel rappresentare i personaggi stranieri. Erano nemici invasori o occupanti ("Occupazione in 26 immagini" e altri lavori di Lordan Zafranovic) con tedeschi e italiani protagonisti, oppure erano - gli inglesi - intermediari per un'alleanza e un aiuto dall'esterno. A volte, il personaggio italiano "Bambino" di "Most", erano funzionali a spunti comici.

Nei film dell'ultimo decennio l'arrivo dello staniero (il Clinton di "Gori vatra - Benvenuto Mr. President" di Pjer Zalica) rappresenta una risoluzione miracolistica dello stallo. Oppure c'è la messinscena - "No Man's Land" di Danis Tanovic - del teatrino umanitario sospeso tra slanci e cinismo, con i militari internazionali impotenti a interporsi tra le parti ma pure a salvare due soldati in una trincea.

Così, se i film finanziati dalla Federazione jugoslava riuscivano in alcuni casi a essere critici verso il sistema, le coproduzioni internazionali non risparmiano accuse neanche ai partner produttivi.

Come ultima cosa si può dire che il cinema dopo Dayton non è stato usato per regolare conti o affermare tesi di parte ma ha raccontato storie in modo abbastanza equilibrato ("onesto" ci ha detto l'attore Rade Serbedzija in una recente intervista). C'è da sperare che non sia solo l'effetto di un "protettorato artistico" dato dall'influenza dei produttori internazionali ma che sia parte di un processo di maturazione complessiva dove i cineasti siano la punta avanzata e che si ripercuota positivamente sulla vita sociale e politica dei Paesi che facevano parte della Jugoslavia.


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