Qual è il vero volto di Sarajevo? Quello della capitale culturale fornito dal Sarajevo Film Festival o quello fiacco, ripiegato su se stesso di una quotidianità che ancora fatica a confrontarsi col passato?
Ogni anno, dopo la chiusura del Sarajevo Film Festival, la capitale della Bosnia Erzegovina sembra cadere in una sorta di letargo. Le strade, che fino a ieri erano piene di turisti, visitatori, gente nota e ignota, cominciano a svuotarsi; molti negozi e botteghe chiudono e la città, che fino a pochi giorni prima dava l’impressione di essere una vera capitale della cultura, diventa un’altra.
Viene da chiedersi quale sia il vero volto di Sarajevo: quello che emerge durante il periodo del festival o quello a cui siamo abituati durante il resto dell’anno?
Fornire una risposta a questo interrogativo non è semplice e, a quanto pare, ci vorrà ancora del tempo affinché Sarajevo scopra la propria verità. Ed è qui che le opere d’arte possono rivelarsi utili, in quanto aiutano, più di qualsiasi statistica sul numero di turisti o recensione su TripAdvisor, a contestualizzare una città nello spazio e nel tempo.
Arrivato alla sua 24esima edizione, quest’anno il Sarajevo Film Festival ha offerto alcuni film che continueranno senz’altro ad essere oggetto di discussione e riflessione.
Accanto ai film “Cold War” di Pawel Pawlikowski, che ha inaugurato il Festival, e “Ága” del regista bulgaro Milko Lazarov che si è aggiudicato il premio per il miglior film, chiudendo il festival, a suscitare particolare interesse sono stati i film che affrontano temi legati alla guerra in ex Jugoslavia.
Uno di questi è “Chris the Swiss”, diretto dalla regista Anja Kofmel, che racconta la storia di un suo cugino, Christian Würtenberg, che nell’autunno 1991 arriva in Croazia, nella Slavonia orientale, come reporter di guerra. Addentrandosi sempre più nella complessità degli eventi, decide di arruolarsi nella brigata internazionale dell’Esercito croato e poco dopo, nel gennaio 1992, viene assassinato. Tutte le piste sull'autore dell'omicidio portano a Eduardo Rósza-Flores, soprannominato Chico, che all’epoca dei fatti era comandante della brigata internazionale dell'Esercito croato, ucciso nel 2009 in Bolivia perché sospettato di preparare un attentato al presidente Evo Morales. A distanza di quasi un quarto di secolo dai fatti, la regista si mette sulle tracce del cugino, realizzando un documentario animato che rappresenta una sorta di liberazione dai demoni del passato.
È interessante notare che il Centro audiovisivo croato (HAVC) ad un certo punto aveva deciso di ritirare il sostegno finanziario fornito alla realizzazione di questo film, per le solite ragioni, ovvero per la presunta intenzione della regista di equiparare le parti coinvolte nel conflitto e per la sua interpretazione “errata” dei fatti. Ma poi hanno cambiato idea, probabilmente giungendo alla conclusione che cavalcare la retorica imperniata sulla contrapposizione tra noi (buoni) e loro (cattivi) non può portare a nulla di buono. Comunque sia, questo film mostra i retroscena della guerra, tutto lo sporco e i traumi che un conflitto lascia dietro di sé.
Ciò che accomuna i popoli coinvolti nelle guerre in ex Jugoslavia – ma vale anche per altri popoli, basti pensare a Israele – è che a tutt’oggi fanno ancora fatica ad accettare la verità sui crimini commessi in loro nome. Nel 2016 il regista serbo Ognjen Glavonić ha realizzato un documentario, intitolato “Dubina dva” [Profondità 2], su una fossa comune scoperta nei pressi di Belgrado, ovvero sugli oggetti in essa ritrovati, appartenenti a civili albanesi uccisi durante il conflitto in Kosovo del 1999. Avendo capito di aver toccato un argomento delicato, rimasto per lungo tempo coperto da una coltre di silenzio, Glavonić ha continuato a indagare, impegnandosi in un progetto che ha portato alla realizzazione del suo primo lungometraggio, intitolato “Teret” [Un incarico pericoloso].
Durante la guerra del Kosovo l’esercito jugoslavo ingaggiava camionisti per trasportare cadaveri dal Kosovo in Serbia, ma molti di loro non sapevano, o non volevano sapere, cosa stessero trasportando. Il film parla di uno di questi camionisti, interpretato dall’attore croato Leon Lučev, premiato come miglior attore protagonista all’ultimo festival di Sarajevo. Un premio del tutto meritato: quella ignoranza consapevole dei crimini, quel persistere nell’ignorare la verità, è una metafora perfetta della Serbia degli anni Novanta, una precisa diagnosi della società serba di allora. Il peso del passato è ingombrante; il film è lento, realistico e lascia poche speranze.
Si direbbe che nei Balcani non appena cresce una generazione capace di confrontarsi col peso del passato, scoppia una nuova guerra. Il film di Glavonić, scandito da riferimenti alla lotta partigiana, ci mostra un paese senza futuro. Quanto è cambiata la Serbia nel frattempo? A giudicare dal modo in cui i media “patriottici” parlano di questo film, non molto. “Uno schiaffo al popolo serbo”, questa frase racchiude, in nuce, l’atteggiamento della maggior parte dell’opinione pubblica serba nei confronti di questo film, ritenuto anti-serbo. D’altra parte, il fatto che esistano prove dei crimini commessi e che molte persone fossero coinvolte nella macchina del terrore contro la loro volontà, sembra non sconvolgere nessuno.
Manipolazione della storia
Che la tendenza alla manipolazione della storia rappresenti uno dei principali problemi con cui devono fare i conti i paesi balcanici, lo testimonia anche il film romeno “I Do Not Care If We Go Down in History as Barbarians”. Il regista Radu Jude ritorna al tema della Seconda guerra mondiale, cercando di accertare i fatti relativi ai crimini commessi dall’esercito romeno che per tre anni aveva combattuto a fianco dei nazisti. “Da bambini guardavamo i film che mostravano l’esercito romeno combattere contro i nazisti. Ma ciò è avvenuto solo nel 1944. Oggi sono in pochi a saperlo, a causa della propaganda”, ha spiegato il regista.
Dopo la “liberazione” di Odessa dal terrore rosso, iniziò la persecuzione della popolazione ebraica della città, alla quale prese parte attiva l’esercito romeno, facendosi complice dello sterminio di circa 25mila persone. La protagonista del film, regista teatrale Mariana Marin (interpretata da Ioana Iacob), che vuole mettere in scena uno spettacolo sul massacro di Odessa, si scontra con innumerevoli ostacoli: pressioni da parte dei politici, incomprensione da parte dell’opinione pubblica che continua a negare l’esistenza del massacro, atteggiamenti ostili di alcuni attori, che si rifiutano di collaborare con gli attori rom, sostenendo che si tratta di uno spettacolo anti-romeno. Suona familiare, vero? Noi abbiamo ragione, i nostri non perpetravano crimini, e quando uccidevano lo facevano per difendere la giusta causa. Sempre lo stesso discorso.
In questo senso, quella di Sarajevo è una storia del tutto peculiare. La città che è sopravvissuta all’assedio militare più lungo della storia moderna, oggi più che mai rischia di diventare una provincia, il buco nero d’Europa, con un afflusso sempre maggiore di capitali provenienti dai paesi islamici. Dopo un periodo di grandi successi a cavallo tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila, coronati dal premio Oscar per il miglior film straniero vinto nel 2002 da Danis Tanović e dall’Orso d’Oro vinto nel 2006 da Jasmila Žbanić, la parabola del cinema bosniaco è entrata nella sua fase discendente. Nel 2017 non è stato prodotto nessun lungometraggio diretto da un regista bosniaco e, di conseguenza, il cinema bosniaco era del tutto assente dall’ultima edizione del festival di Sarajevo.
Così anche quest’anno durante il Sarajevo Film Festival la capitale bosniaca ha mostrato il suo doppio volto: un luogo dove è possibile dire e dimostrare la verità su quanto accaduto in altri paesi della regione, ma dove non si è ancora pronti a confrontarsi, nemmeno attraverso il cinema, con la propria verità, o almeno una parte di essa.
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