Che prospettive offrono le trattative armene con la UE? Quale futuro per la piccola regione del Nagorno-Karabakh, teatro di un conflitto poco noto e tuttora irrisolto? Un reportage di Paolo Bergamaschi
di Paolo Bergamaschi*, per la Gazzetta di Mantova , 4 giugno 2006
Pochi sanno che gli accordi sottoscritti dall'Unione Europea con i paesi terzi, siano essi di cooperazione, partenariato o associazione, contemplano una dimensione parlamentare.
In parole povere alla diplomazia degli esponenti di governo viene affiancata quella dei deputati.
Il parlamento europeo, pur privo dei poteri tradizionali di un qualsiasi parlamento nazionale, gode di una reputazione che va ben oltre i propri effettivi meriti forse per il fatto di essere l'unica assemblea transnazionale eletta a suffragio diretto.
L'europarlamento, così, è suddiviso in una trentina di delegazioni che si occupano delle relazioni con i parlamenti di ogni angolo del globo. E a seconda della profondità delle relazioni che si vogliono sviluppare gli euro-parlamentari si incontrano con i colleghi degli altri paesi una o due volte all'anno alternandosi fra Bruxelles o Strasburgo e la capitale del paese partner. I maligni sostengono che il turismo politico sia l'ennesimo privilegio di cui godono i deputati europei.
Questi ultimi ribattono che viaggiare rientra nei propri obblighi istituzionali e che comunque gli spostamenti sono spesso lunghi, difficili e logoranti. L'uomo della strada chiosa che l'ipotesi di uno scambio di ruoli non sarebbe affatto sgradita pur di evitare di timbrare il cartellino tutte le mattine.
Eccomi di nuovo a Erevan per la riunione annuale della Commissione di Cooperazione fra il parlamento europeo e quello armeno.
La città di questi tempi è ridotta ad un unico grande cantiere che si estende dal centro alla periferia. Negli ultimi anni tutte le capitali dei nuovi stati europei nati dalla esplosione della Jugoslavia e dell'Unione Sovietica hanno radicalmente cambiato il look per renderlo più consono al nuovo e per certi versi imprevisto status.
Lo skyline attuale è una selva impressionante di scheletri di cemento ed intelaiature di acciaio con i bracci delle gru che quasi si intrecciano con le antenne e le padelle satellitari proliferate in modo incontrollato sugli austeri edifici in stile sovietico.
Con il 10% l'Armenia è il paese in Europa con il più alto tasso annuo di crescita. Il dato però non deve trarre in inganno ma va inserito in un contesto dove il salario medio si aggira attorno ai 100 euro e le pensioni superano a malapena i 30. Erevan, poi, deve far fronte ai problemi di un paese ancora in guerra, anche se non più combattuta, con i vicini.
Il continuo spopolamento della campagna sta gonfiando la città a dismisura tanto che oggi quasi la metà della popolazione della repubblica caucasica risiede nella capitale. Nelle riunioni con la controparte armena si discute di tutto ma l'argomento principale rimane come sviluppare ulteriormente le relazioni fra Unione Europea ed Armenia. Da poco entrata nella Politica Europea di Vicinato che offre nuove opportunità ai paesi più prossimi, la giovane ex-repubblica sovietica vorrebbe accelerare i tempi di integrazione con l'Unione anche per rompere il persistente isolamento regionale.
A causa del conflitto in Nagorno-Karabakh, infatti, le frontiere con Azerbaigian e Turchia sono sigillate mentre rimangono aperte quelle con Georgia ed Iran.
Durante un breve spostamento a Gyumri, la seconda città che si trova a 150 chilometri a ovest della capitale, tocco con mano le conseguenze di questa situazione.
Il più importante nodo ferroviario per i convogli diretti nell'Anatolia turca e quindi ad Istambul è ridotto ad un centro fatiscente con la popolazione in pochi anni dimezzata e nessuna prospettiva di sviluppo.
L'ultima stazione al confine con la Turchia cade a pezzi oramai abbandonata mentre i vagoni merci sostano senza speranza sui binari arrugginiti interrotti dal filo spinato con le guardie ai due lati del confine che ripetono puntigliosamente la manfrina quotidiana del controllo a distanza.
Dovunque volgo lo sguardo aleggia lo spettro del Nagorno-Karabakh che nell'immaginario collettivo degli Armeni, però, è assurto a totem inattaccabile ed indistruttibile. A Erevan e Baku da anni non si parla d'altro da quando, cioè, all'inizio dei novanta l'esercito armeno intervenne a sostegno delle rivendicazioni indipendentiste della propria comunità che vive in questa piccola regione montagnosa inclusa nel territorio dell'Azerbaigian.
Da allora l'Armenia occupa il 20% di territorio azero, da allora le relazioni tra i paesi del Caucaso meridionale sono irrimediabilmente avvelenate. L'accordo per il cessate il fuoco del 1994 ha prodotto solo uno stato di non-guerra interrotto di tanto in tanto dalle schermaglie dei cecchini. I vari round negoziali per un definitivo accordo di pace succedutisi negli anni sono miseramente naufragati così come la prospettiva di ritessere il dialogo fra i paesi dell'area. Armenia, Russia ed Iran da una parte, Azerbaigian e Turchia dall'altra con la Georgia amica e nello stesso tempo vittima dei potenti vicini e gli Usa e l'Unione Europea intenti a spartirsi le nuove rotte degli idrocarburi del Mar Caspio.
A Bruxelles sono considerato come uno dei pochi che riesce a mantenere rapporti di familiarità con entrambe le ambasciate dei paesi in guerra. Sono tornato nel Caucaso con il preciso obiettivo di recarmi nell'area di conflitto. Prima di partire gli Azeri mi avevano fatto presente che una eventuale visita in quel territorio sarebbe stata considerata come un atto sgradito che viola la legalità internazionale e offende il governo di Baku.
Secondo il loro punto di vista la presenza di una delegazione europea da quelle parti avrebbe suonato come un implicito riconoscimento dell'auto-proclamata repubblica indipendente del Nagorno-Karabakh.
Io, invece, convinto del contrario, ritengo che in certi casi occorra avere il coraggio di dialogare per cercare di capire anche le ragioni dell'altro. E allora via in furgoncino verso uno degli angoli più emblematici del Caucaso!
Si viaggia su di un lunghissimo altopiano tra nevi perenni. Boris, l'autista con il quale comunico a gesti, ha il suo da fare per evitare le buche che abbondano come i funghi che sono l'alimento di base della cucina di questa regione. Ai moti sussultori si aggiungono, così, quelli ondulatori. La strada si arrotola sulla montagna come il filo di un gomitolo.
Si passa dal sogno all'incubo con gli ultimi tornanti avvolti in una fitta nebbia. Quasi sette ore per percorrere 340 chilometri.
Stepanakert, il capoluogo, si intravede in fondo sulle colline digradanti. Siamo ospitati in una dacia che ai tempi sovietici faceva da residenza al segretario del partito comunista della regione.
Tutti uguali secondo la retorica dell'epoca, un po' meno nei fatti. La villa è isolata nel verde ai margini della città con un soldato che presidia il cancello di ingresso dell'ampia recinzione.
L'atmosfera bucolica è decisamente fuorviante se si considera che il conflitto ha fatto quasi 20.000 morti e che la guerra non è affatto finita. Eppure la vita a Stepanakert in apparenza scorre tranquilla. Basta, però mettere fuori il naso dalla città per incontrare solo distruzione e desolazione con l'ingombrante eredità dei campi minati.
Quasi un milione di Azeri sono stati costretti ad abbandonare le proprie abitazioni mentre nel resto dell'Azerbaigian si scatenava per vendetta la caccia alla minoranza armena con migliaia di nuovi profughi e di vite spezzate. Ora i territori risultano etnicamente puri ma è questo il futuro che ci riserva la storia? Anche il processo di integrazione europeo che sembrava inarrestabile comincia a mostrare profondi segni di cedimento sotto i colpi di chi predica la frantumazione in tante piccole patrie sovrane e tronfie della propria presunta superiorità.
Incontriamo tutte le autorità: presidente della repubblica, primo ministro, ministro degli esteri, presidente del parlamento.
Tutto è organizzato come un vero stato che, però, nessuno a livello internazionale riconosce. Sono rimasti in 100.000 in Nagorno-Karabakh, l'equivalente di un quartiere di una delle nostre grandi città.
Il parlamento conta 33 membri, più o meno come da noi un consiglio di circoscrizione. Essendo molto pochi coloro che si azzardano a visitare la regione diventiamo la valvola di sfogo con riunioni interminabili e ripetitive che, all'inizio tese, si fanno mano a mano cordiali ed amichevoli. L'ospitalità, a volte soffocante, è una delle caratteristiche dominanti delle genti del Caucaso che va di pari passo, però, con la facilità, quasi la disinvoltura con cui ricorrono alla forza.
Andorra, Lichtenstein, San Marino sono il modello a cui i nostri interlocutori dicono di ispirarsi ma c'è ancora posto in un mondo globalizzato per realtà territoriali così minuscole?
Alle loro affermazioni ribatto portando gli esempi di minoranze che le convulsioni della storia hanno obbligato a vivere in stati nazionali diversi dal proprio come il Sud Tirolo e che hanno saputo fare di necessità virtù trasformandosi non senza problemi in esempi di convivenza. Ma sono parole al vento: troppo recenti sono le ferite e occorreranno generazioni prima che vengano sanate e che nasca qualche saltatore di muri come seppe fare a suo tempo Alex Langer in Alto Adige.
Il Nagorno-Karabakh sopravvive grazie alle generose elargizioni della diaspora. Sono solo tre milioni gli Armeni che vivono in patria ma quasi dieci quelli che risiedono in altri paesi.
Alla prima diaspora degli inizi del secolo scorso per sfuggire agli orrori del genocidio perpetrato dagli Ottomani ha fatto seguito quella degli ultimi anni con le famiglie quasi obbligate a cercare fortuna all'estero vista l'instabilità economica e politica della regione.
La comunità armena più numerosa si trova in Russia, quella più ricca negli Stati Uniti, quella più famosa in Francia. Paradossalmente è proprio fra di loro che si annidano i circoli più radicali ed oltranzisti che predicano e sostengono il muro contro muro con gli Azeri rifiutando qualsiasi ipotesi di convivenza.
Per una forma di spietato contrappasso sembra quasi vogliano far pagare ad altri i torti subiti dai propri genitori. Ma come si dice spesso due torti non fanno una ragione e risulta impossibile scardinare dalla memoria collettiva gli eventi tragici del passato. L'Armenia si fa vanto di essere stato il primo stato a dichiararsi cristiano nel 301 d.c. ed è forte la consapevolezza e l'orgoglio di essere l'ultimo avamposto della regione davanti all'oceano islamico rappresentato da Turchia, Iran ed Azerbaigian.
Non è occasionale notare come spesso da queste parti le chiese siano situate in luoghi impervi o ai margini degli abitati.
Sembra quasi si voglia sottolineare il carattere esclusivo del rapporto con Dio a scapito della dimensione comunitaria predominante nella nostra tradizione religiosa. Si dice che le chiese più antiche ed i monasteri siano stati eretti su luoghi di culto pagani preesistenti in corrispondenza di campi gravitazionali particolari.
Ma forse questo è solo il folklore e la leggenda di un popolo ricco di cultura ancora alla ricerca di una collocazione e di un ruolo dopo i recenti sconvolgimenti epocali.
Alla partenza, sulla pista dell'aeroporto, due cicogne con il loro volo goffo e allo stesso tempo agile si stagliano contro il monte Ararat in lontananza come il presagio di qualcosa che sta per o dovrà prima o poi nascere. Il rompicapo del Caucaso troverà una soluzione che non sarà né facile né difficile, né semplice né complicata, né naturale né artificiale.
Sarà solo inevitabile e forse imprevedibile come tutto il resto in questo ultimo brandello d'Europa.
Le tessere di questo stupefacente mosaico di genti in cerca di una impossibile verginità etnica si incastreranno di nuovo.
E l'immagine che ne scaturirà sarà solo un po' più nitida della precedente.
*Paolo Bergamaschi è consulente di politica estera del gruppo dei Verdi presso il Parlamento Europeo
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