Dopo il 1989, l'intervento internazionale ha contribuito ad avvicinare est e sud-est Europa all'Unione Europea sostenendo il difficile cammino delle democrazie. Secondo il think-tank Transitions Online, questa era la parte facile
Questo articolo è la traduzione di "No More Low-Hanging Fruit" di Pavol Demes*, pubblicato da Transitions Online in data 14 ottobre 2009
I paesi della comunità Euro-Atlantica quest'anno hanno dovuto far fronte a una serie di problematiche di carattere politico ed economico; il 2009 tuttavia ha segnato anche l'anniversario di diverse pietre miliari della storia dell'Occidente, come il 70° anniversario dell'inizio della Seconda guerra mondiale, il 60° anniversario della fondazione della NATO, il 20° anniversario della caduta del Muro di Berlino. Quest'ultimo evento in particolare ha causato una serie di profondi mutamenti nei paesi dell'ex blocco sovietico.
Due decenni dopo, ci troviamo ad attraversare un'epoca in cui la crisi economica e le paure relative alla sicurezza si alternano alle grandi speranze accese dai mutamenti avvenuti alla Casa Bianca e nelle istituzioni europee. Viene naturale guardarsi indietro, analizzare lo stato delle cose e pensare a nuove strategie per il futuro.
L'Europa post-comunista si è trasformata in un laboratorio di sperimentazione di metodi di promozione della democrazia, e, grazie anche al supporto dell'Occidente, nella regione si è assistito ad un processo di profonda trasformazione socio-politica. Ma il 2009 non è il 1989, e alcune problematiche devono essere ripensate da un punto di vista radicalmente nuovo.
UN'ESPLOSIONE DI DEMOCRAZIA
Nell'entusiasmo dell'"annus mirabilis" 1989, il "ritorno all'Europa" costituiva un obiettivo fondamentale per le popolazioni oppresse di molti paesi. I governi occidentali, i partiti politici, gli enti di ricerca e istruzione, le istituzioni religiose, i mass media, gli istituti di finanziamento, le ONG e le associazioni di volontariato, persino singoli individui con diversi background personali e culturali offrirono allora il proprio sostegno e la propria esperienza per ideare nuove strategie di supporto alle neonate democrazie.
Questo primo "decennio d'oro" del post Guerra Fredda fu un periodo all'insegna della spontaneità, della creatività, dell'entusiasmo e della fiducia nel progetto europeo. La famiglia Euro-Atlantica condivideva una visione comune di un'Unione ulteriormente allargata, basata su valori democratici, giustizia sociale e prosperità economica. Le comunità politiche e i donatori europei e americani operavano solitamente in buona sintonia, i loro contributi alla democratizzazione godevano dell'approvazione della popolazione locale e non erano minati da serie difficoltà di natura politica, ideologica o tecnica. Nel 1996, dieci paesi dell'ex blocco comunista avevano firmato accordi di adesione all'Unione Europea, fattore che si rivelò in seguito un potente motore di modernizzazione e una forte spinta all'attuazione di profonde riforme.
Allora erano in pochi a dubitare del potere di trasformazione esercitato dall'Unione Europea. La strada verso la democrazia e il libero mercato si rivelò più accidentata del previsto, ma la "democracy assistance", messa in atto principalmente da rappresentanti di soggetti politici nuovi e di organizzazioni non statali, era considerata come una tappa pienamente legittima del processo di democratizzazione. Quando emergevano problemi all'interno delle singole democrazie nazionali (ad esempio in Slovacchia con Vladimir Meciar), l'Unione Europea e gli Stati Uniti utilizzavano le armi della condizionalità, della pressione diplomatica e del sostegno alle forze democratiche locali per risolverli.
Per la regione dei Balcani Occidentali e i paesi della CSI, la transizione post-1989 ha presentato invece serie difficoltà. La qualità della vita ha subito un peggioramento in queste zone e le guerre civili a sfondo etnico hanno distolto alcuni di paesi dal cammino verso l'integrazione europea. La Russia di Boris Eltsin, debolissima dal punto di vista sia economico che politico, fu stremata da scandali e corruzione dilaganti al suo stesso interno. I sostenitori europei si ritrovarono invischiati in compiti sempre più ardui, come il superamento di un'eredità comunista più profondamente radicata del previsto e la gestione di conflitti ed emergenze umanitarie.
Gli eventi del 1999 illustrano bene questa dicotomia. Nel marzo del 1999, la Repubblica Ceca, l'Ungheria e la Polonia fecero ingresso nella NATO, evento che, come sostenne allora Vaclav Havel, segnava "la vera ed irrevocabile fine" della divisione dell'Europa in due blocchi contrapposti. Nello stesso mese, la NATO intervenne per placare la catastrofe umanitaria scatenata in Kosovo da Slobodan Milošević.
L'anno successivo, grazie al coraggioso intervento della società civile e dell'opposizione democratica serba, Milošević venne deposto pacificamente. In base all'interpretazione di molti, ciò costituiva un chiaro segnale dell'impotenza di certi leader nazionalisti, la cui abilità nulla poteva contro la volontà popolare di costruire società democratiche e unirsi alla famiglia europea. Ciò che accadde in Serbia rafforzò inoltre la convinzione che l'Occidente, facendo leva su una forte volontà politica e su programmi ben congegnati di assistenza, fosse perfettamente in grado di trasmettere un forte impulso al cambiamento anche in situazioni particolarmente delicate.
IL SECONDO DECENNIO
L'ingresso nella UE di 10 stati ex-comunisti tra il 2004 e il 2006, la Rivoluzione delle rose scoppiata in Georgia nel 2003 e, nel 2004, la Rivoluzione arancione in Ucraina rappresentarono all'epoca un vero e proprio trionfo per i fautori della "democracy assistance". Tuttavia, il decennio in via di conclusione ha generato anche diverse difficoltà di tipo politico, economico e sul fronte della sicurezza; queste difficoltà hanno contribuito a fiaccare la determinazione e la fiducia dei sostenitori della democrazia liberale e del libero mercato, creando forti perplessità e una crescente opposizione rispetto al completamento del processo di integrazione.
La "guerra al terrorismo", promossa dall'amministrazione Bush sull'onda dello shock provocato dagli attentati dell'11 settembre, e la successiva invasione dell'Iraq hanno scavato un profondo solco nell'alleanza Euro-Atlantica e minato la credibilità degli Stati Uniti in veste di promotore della democratizzazione. Allo stesso tempo, una Russia rinvigorita si è riaffacciata alla ribalta e l'Unione Europea si è trovata a fronteggiare un periodo di difficoltà, dovute principalmente all'allargamento e a lunghe dispute rispetto al processo di riforma interna.
L'insieme di questi fattori e la crisi economica globale con cui si è concluso il decennio hanno fiaccato lo slancio dell'integrazione proprio mentre il processo di democratizzazione stava raggiungendo la regione occidentale dei Balcani e i cosiddetti "vicini dell'Est" (Bielorussia, Ucraina, Moldova, Georgia, Armenia e Azerbaidjan), che costituivano però un terreno reso assai scivoloso da istituzioni democratiche deboli, corruzione dilagante, crimine organizzato e uno stato di povertà endemica.
Nei primi anni del decennio i fautori della "democracy assistance" erano ancora estremamente fiduciosi. Le strategie di "esportazione della democrazia" dagli stati dell'Europa Centrale e del Baltico alle aree maggiormente complesse dell'Europa orientale e dei Balcani vedevano l'Occidente ricoprire ancora una volta il ruolo di protagonista. Il sostegno fornito ad associazioni della società civile, a ONG di varia natura, a personalità politiche democratiche e favorevoli all'integrazione europea, il supporto ai media indipendenti e l'attività di osservazione atta a garantire il corretto svolgimento di elezioni realmente libere diedero risultati positivi, paragonabili a quelli ottenuti in Serbia. Ma il contesto in cui veniva portato avanti il processo di "democracy assistance" cambiò radicalmente a partire dalla seconda metà del decennio, in special modo nei paesi ex-sovietici.
Le esitazioni e i tentennamenti della UE hanno infatti deluso le aspettative di molti negli stati interessati ai processi di integrazione; inoltre, la concomitante rinascita economica della Russia, accompagnata da una retorica molto più accattivante, ha indotto molti stati confinanti a guardare a Est piuttosto che a Ovest per ottenere il sostegno di cui necessitavano. Gli improvvisi successi della Rivoluzione delle rose e della Rivoluzione arancione in Georgia e Ucraina hanno inoltre messo in allarme i leader autoritari degli stati vicini, spingendoli a scatenare la repressione contro le ONG e le organizzazioni straniere presenti sul territorio, nonché contro i mass media indipendenti e le forze politiche d'opposizione. Un'ondata di opposizione al modello liberal-democratico ha iniziato a montare, in special modo via via che i leader georgiano e ucraino andavano perdendo la propria allure riformista. Il dibattito attualmente è incentrato principalmente sui temi delle risorse energetiche, della sicurezza e della stabilità finanziaria e solo in minor misura sulla democrazia e sul rispetto dei diritti umani.
LE SFIDE FUTURE
Oggi appare chiaro che la concezione occidentale di sostegno alla democratizzazione sta attraversando una profonda crisi, e verrà messa ulteriormente in discussione negli anni a venire. Il progetto europeo e la visione su cui esso è basato generano più interrogativi che risposte. Gli studi e le conferenze tenutisi nel corso degli ultimi due anni tendono a sottolinearne le debolezze piuttosto che a ricercare nuove strategie vincenti. Proprio come 20 anni fa, ci troviamo a fronteggiare una situazione per noi totalmente nuova.
Fino a quando la comunità transatlantica non avrà superato le proprie difficoltà, sarà ovviamente molto difficile ottenere risultati paragonabili a quelli del passato nell'ambito della "democracy assistance". L'amministrazione Obama, la nuova leadership europea e gli stati UE dovranno inoltre affrontare una difficile prova: occorre capire se, nonostante le difficoltà, continueremo ad accogliere nuovi membri, condividendo con essi i nostri valori e le risorse a nostra disposizione.
Sono convinto che la nostra riflessione su come affrontare le sfide che ci attendono possa trarre molti utili insegnamenti da quanto è avvenuto negli ultimi 20 anni.
In primo luogo, deve esserci una sintonia d'intenti e di volontà tra chi fornisce il proprio sostegno e chi lo riceve. L'assistenza alla democratizzazione funziona al suo meglio quando risponde alle esigenze delle forze riformatrici locali, e quando tutte le parti coinvolte sono aperte al dialogo e consapevoli dei motivi e delle finalità per cui viene di fatto fornito un sostegno.
Troppo spesso infatti, e specialmente nei paesi in cui la piena appartenenza alla UE viene vista come una prospettiva remota se non totalmente irreale, la "democracy assistance" è vista come un esercizio puramente teorico. Laddove viene a mancare la forza del dialogo, deve essere posta particolare attenzione nel fornire argomentazioni e metodi efficaci a livello locale. L'approccio risultato vincente nei paesi dell'allargamento a 25 (incentrato sul forte sostegno offerto a organizzazioni della società civile e sul rigore esercitato nel garantire la correttezza delle elezioni) non può essere esportato o replicato in maniera automatica.
In paesi come la Bielorussia (il cui governo si ostina a respingere i programmi di "democracy assistance" proposti da governi stranieri e da associazioni private) e l'Azerbaijan (dove un governo autoritario ha garantito un discreto livello di sicurezza e di crescita economica), è molto difficile operare seguendo i tradizionali metodi di sostegno alla democratizzazione finora utilizzati dalla comunità Euro-Atlantica. Un approccio alternativo potrebbe essere piuttosto quello messo in pratica prima del 1989, quando il processo di democratizzazione veniva promosso offrendo supporto ai dissidenti e ai difensori dei diritti umani.
In secondo luogo, occorre ricordare che la "democracy assistance" è anche una questione di stile. L'assistenza alla democratizzazione tocca infatti nervi scoperti, sia a livello politico che psicologico. Urtare la sensibilità della popolazione, ignorare le problematiche specifiche dei singoli paesi, oppure esagerare con le critiche e le pressioni può seriamente compromettere le probabilità di successo.
Molti dei paesi emersi dalle ceneri del comunismo non potevano dirsi veri e propri stati nel periodo pre-sovietico. La creazione di un senso di identità nazionale è spesso percepita come più urgente rispetto alla democratizzazione del paese, e ciò potenzialmente costituisce una carta carta preziosa nelle mani di leader populisti particolarmente astuti. Quando si presta il proprio sostegno alle forze democratiche dei paesi in via di transizione, occorre ricordare che sono proprio queste forze, e non gli enti di finanziamento o i governi stranieri, a rappresentare il vero motore del cambiamento, in grado di sviluppare strategie realmente efficaci. Non bisogna dimenticare che queste persone spesso mettono a repentaglio il proprio futuro e la propria stessa vita per tutelare la dignità dei loro concittadini e difendere la giustizia nel proprio paese.
Le tempistiche del processo di democratizzazione variano da paese a paese. Se un donatore, attore politico o "promotore della democrazia" in generale risulta eccessivamente impaziente o autoritario, ciò può generare seri problemi e gettare ombre sulla buona fede dei fautori della "democracy assistance".
Temo infatti che molte istituzioni europee e americane, create al preciso scopo di promuovere la democrazia e la libertà (e che, per inciso, hanno assolto piuttosto bene al proprio compito negli ultimi due decenni) dovranno affrontare seri problemi operativi e di legittimazione nei prossimi anni. Ciò è vero in special modo per quelle istituzioni che tendono a sottovalutare i mutamenti verificatisi sugli scenari internazionali, e a non attribuire la giusta importanza al problema d'immagine che la "democracy assistance" sperimenta in alcune aree del mondo, lasciando così immutato il proprio modus operandi.
In terzo luogo, la sincerità paga, e deve essere dimostrata non soltanto a parole. Fattori quali la vicinanza geografica, la storia comune e il contesto esterno hanno contribuito a rendere l'integrazione degli stati dell'allargamento a 25 in Occidente relativamente facile. Non è stato difficile convincere le forze politiche e la popolazione di questi paesi che gli Stati Uniti e la UE desiderassero in buona fede includerli in una comunità basata su valori condivisi.
La situazione oggi risulta meno definita e più ricca di sfumature, e gli interessi degli Stati Uniti e della UE non sono più chiari come un tempo. Le problematiche legate all'economia e alla sicurezza, il tema delle risorse energetiche e altri interessi strategici che coinvolgono questi paesi generano non pochi dilemmi morali; dovremo rassegnarci a scendere a più compromessi che in passato.
Inoltre, se da una parte l'Occidente offre il proprio supporto a forze democratiche e ad amministrazioni progressiste, appoggia i difensori dei diritti umani, sostiene i media indipendenti e promuove la "good governance", dall'altra la popolazione dei paesi coinvolti (compresi i rappresentanti delle forze democratiche) è spesso costretta ad assistere a spettacoli davvero avvilenti. Consulenti strapagati o guru mediatici occidentali che aiutano politici autoritari a migliorare la propria immagine e a vincere le elezioni; oligarchi dell'Europa dell'Est che si ripuliscono la reputazione creando ONG a Occidente; rappresentanti politici occidentali che chiudono un occhio sulle tendenze autoritarie se messe in atto in stati ricchi di risorse energetiche. In un contesto come quello appena descritto, la comunità Euro-Atlantica deve ripensare al modo in cui gestisce i deficit di democrazia che si verificano in molti di questi paesi.
In ultima istanza, la "democracy assistance" e la costruzione della democrazia sono processi profondamente umani, difficili da descrivere con linguaggio analitico. Fortunatamente in molti, sia a Est che a Ovest, hanno visto e sperimentato sulla propria pelle come la perseveranza dell'uomo nel perseguire la verità, l'uguaglianza e la giustizia sia in grado di operare veri e propri miracoli, e permetta di superare la paura, l'apatia e la sfiducia.
Grazie soprattutto a questa spinta ideale, alcuni dei popoli dell'Europa centrale e orientale hanno costruito nazioni spiritualmente in sintonia con i valori del progetto europeo. Altri paesi stanno ancora lottando per superare gli strascichi di difficoltà passate o presenti. In un mondo multipolare sempre più complesso e pieno di paure, dobbiamo liberarci della nostra convinzione che a prevalere siano sempre le considerazioni di carattere tecnico e materiale.
*Pavol Demes è il direttore del German Marshall Fund per l'Europa Centrale e Orientale. Questo articolo è l'adattamento di una relazione scritta per l'Istituto internazionale per la democrazia e l'assistenza elettorale (International Institute for Democracy and Electoral Assistance) di Stoccolma.
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