L'identità di chi appartiene a un territorio multietnico non è stabilita una volta per tutte, né la storia è comprensibile se parcellizzata in brevi periodi avulsi dal resto. È questa l'urgenza che ci trasmette Marta Verginella ne ''Il confine degli altri''. Una nostra recensione
Fare storia sul confine. Analizzare senza preconcetti proprio quei traumi che hanno creato i dissidi e alzato le barriere. Entrare nella complessità dei percorsi individuali per far capire che l'identità di chi appartiene a un territorio multietnico non è stabilita una volta per tutte, né la storia è comprensibile se parcellizzata in brevi periodi avulsi dal resto.
È l'urgenza che ci trasmette Marta Verginella ne "Il confine degli altri" dove, utilizzando il metodo biografico, invita a superare gli stereotipi prodotti dalla storiografia tradizionale e dimostra che occuparsi della Venezia Giulia nel periodo tra le due guerre mondiali significa fare riferimento a variabili di un passato lontano e a un contesto geopolitico molto più ampio.
Come anticipa l'autrice nell'introduzione, "l'osservatorio proposto in questa narrazione è quello sloveno. Le angolature scelte sono dettate dai percorsi biografici di intellettuali, politici, commercianti, avvocati, maestre, scrittori e gente comune che ci aiutano a delineare i contorni di una società, troppo spesso vista dall'esterno come uniforme quando invece al suo interno si articola in una moltitudine di attori sociali e politici. Incrociando frammenti di diari, memorie, letteratura autobiografica e fonti d'archivio ne risulta l'immagine di una società minoritaria, rimasta dopo il Trattato di Rapallo entro i confini del Regno d'Italia, soggetta alla politica di snazionalizzazione fascista, ma capace anche di promuovere un radicale ribaltamento degli equilibri politici e nazionali nell'area".
Impariamo così a conoscere, tra le altre, la personalità della scrittrice e insegnante Marica Nadlišek, fondatrice nel 1893 di "Slovenka", il primo giornale femminile sloveno fondato a Trieste, che impartiva lezioni private in sloveno ai suoi figli e a quelli delle sue amiche, e che per il suo dichiarato filo-jugoslavismo dovette subire ripetute incursioni nel suo appartamento da parte delle autorità italiane: si ignorava che negli anni novanta dell'Ottocento, questa donna era stata una delle poche triestine a insistere affinché italiani e sloveni conducessero una comune lotta politica anti-tedesca.
E, ancora, Marica Nadlišek era la madre dello scrittore Vladimir Bartol, laureatosi in psicologia all'Università di Lubiana, dove si trasferì da ragazzo per seguire i genitori quando questi dovettero lasciare Trieste: il giovane si specializzò a Parigi e divenne giornalista a Belgrado, ma si sentì sempre estraneo all'ambiente d'accoglienza, rimpiangendo l'atmosfera cosmopolita del ginnasio tedesco frequentato a Trieste al quale, nell'anno che precedette lo scoppio della prima guerra mondiale, erano iscritti alunni appartenenti a 14 diverse nazionalità.
"Non c'è una memoria di queste cose - spiega Marta Verginella -, perché non è funzionale al discorso politico rafforzatosi nei decenni, fatto di tesi create agli inizi del Novecento e che ritroviamo ancora oggi in testi storici sloveni e italiani. Sono stereotipi prodottisi nel tempo e che bisogna decostruire, naturalmente con il lavoro sulle fonti e sulla documentazione che c'è. Usare una prospettiva manichea significa riprodurre i pregiudizi; dare delle etichette equivale a creare nuovi muri. Mentre invece non ha nessun senso differenziare quando c'è una contaminazione culturale, perché se analizziamo il vissuto dei singoli individui vediamo che ci sono complicazioni, ambiguità, contraddizioni e che abbiamo spesso a che fare con identità che mutano".
Di contro alle interpretazioni di tipo manicheo di un tempo, che cambiavano naturalmente a seconda del punto di vista italiano o sloveno, l'autrice mostra come bene e male siano indissolubilmente intrecciati e quanto sia difficile tracciare netti confini nazionali da una parte e dall'altra. Siamo infatti davanti a distinzioni continuamente cangianti e nei personaggi del libro la percezione della propria appartenenza nazionale si costruisce continuamente, si codifica e si trasforma nel tempo.
Numerosi sloveni e croati si erano spontaneamente integrati nella realtà italiana: un processo autonomo di assimilazione che durò fino oltre la metà dell'Ottocento. Certe famiglie slovene esprimevano un netto rifiuto di fronte ai discorsi radicali di appartenenza nazionale, e si sentivano parte integrante della Trieste dell'Ottocento, del suo cosmopolitismo e della sua apertura internazionale. Ci viene svelata quindi anche la delusione degli sloveni del Litorale che fuggono dall'Italia fascista e si trovano a dover fare i conti con l'arretratezza, la chiusura e lo spirito conservatore dominante degli sloveni dell'entroterra.
"Inoltre - prosegue l'autrice -, si è sempre parlato della società contadina slovena da una parte e della borghesia cittadina italiana dall'altra. Con questo libro mi premeva far comprendere al lettore italiano che esisteva un ceto medio sloveno da dove nasceva la pubblicazione: questo ceto medio era al centro del movimento nazionale e a un certo punto avanzò delle richieste politiche, che non vennero accolte".
Veniamo poi a sapere che, per opportunismo, alcuni sloveni inquadrati nell'esercito italiano e mandati in Africa, divenuti prigionieri americani con la caduta della Tunisia, dopo l'8 settembre si decidono a rivelare la loro slovenità e a farsi arruolare dal governo in esilio a Londra, per poi passare alle formazioni partigiane che combattevano con Tito.
Apprendiamo infine dell'avvocato triestino Boris Furlan, sloveno antifascista che aveva combattuto contro il fascismo dagli Stati Uniti e attraverso radio Londra, incoraggiando la lotta contro i tedeschi e gli italiani loro collaborazionisti: una volta tornato in Jugoslavia però venne accusato per le sue idee liberali di essere uno strumento degli angloamericani e venne perseguitato rischiando il linciaggio. Per lo stesso motivo, altri 31 intellettuali vennero addirittura processati, finirono in galera per tradimento, sfiorarono la pena di morte e vennero salvati quasi per miracolo.
D'altronde, sempre nell'introduzione, l'autrice avverte: "Lo stesso ampio sostegno dato dalla popolazione slovena al movimento di liberazione jugoslavo durante la seconda guerra mondiale non può venir compreso senza un'attenta analisi dei sentimenti di rivalsa espressi da parte dell'élite slovena espulsa o emigrata durante il ventennio fascista in Jugoslavia e degli strati più politicizzati della popolazione slovena rimasti invece nell'Italia fascista. Nondimeno possono venir capiti in questo modo il fenomeno dell'antifascismo sloveno e la sua reazione, anche violenta, contro il regime fascista, nonché il largo appoggio dato al progetto di annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia di Tito, anche da parte di coloro che non riconoscevano come propria l'ideologia comunista e che in taluni casi ne divennero vittime".
Emergono infine la delusione e l'amarezza di fronte alla nuova Jugoslavia, che era tutt'altro che la società perfetta che alcuni di essi avevano sognato. In ogni caso, non c'è nulla di schematico, bensì una fluidità di situazioni che condizionava le sofferte scelte individuali.
Fortunatamente, la storiografia di oggi si sta aprendo all'influenza dell'antropologia, della sociologia e della psicologia, analizzando le fonti orali e le testimonianze umane, che cambiano totalmente il modo di fare storia.
"Il confine degli altri" segue la scia del libro di Guido Crainz "Il dolore e l'esilio. L'Istria e le memorie divise d'Europa", pubblicato nel 2005, che collocava la tragedia dell'Istria all'interno della generale catastrofe della civiltà europea, mostrando alla luce della memorialistica che quello, lungi dall'essere un fenomeno improvviso, affondava le sue radici nella competizione nazionale già in atto all'interno dell'Impero Austro Ungarico.
Ed è proprio Guido Crainz a firmare la prefazione del libro di Marta Verginella, esordendo con le seguenti frasi: "'Il confine degli altri' è un libro necessario. Apre straordinari squarci su vissuti individuali e collettivi, illumina i contorni ambigui e mobili delle appartenenze nazionali e culturali. Costringe a riflettere, a interrogarsi in modo radicalmente diverso su di una storia che è anche nostra".
Contro la discutibile assolutizzazione di questa vicenda, solitamente estrapolata fuori dal tempo e dallo spazio, come un male che si sarebbe abbattuto sulle popolazioni della Venezia Giulia e di Istria e Dalmazia tra 8/9/1943 e 10/2/1947, libri come questo aiutano a capire anche le ragioni degli altri, a confrontarci con i nostri vicini, partendo da un passato condiviso e aprendo nuove prospettive di ricerca in comune.
Marta Verginella è professore ordinario di Storia del XIX secolo presso il Dipartimento di Storia all'Università di Lubiana. Ha curato il numero monografico della rivista «Qualestoria» dedicato alla storiografia slovena degli anni novanta "Fra invenzione della tradizione e ri-scrittura del passato" (1999). Attualmente studia l'uso politico della storia in zone di confine.
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