Un'intervista a Patrizia Sentinelli, Vice Ministro agli Esteri con delega in materia di cooperazione allo sviluppo, sulle prospettive e le sfide che si prepara ad affrontare. Di Sabina Morandi - Liberazione
Fonte: Ministero degli Esteri
"Responsabilmente impaurita". Così si è sentita Patrizia Sentinelli quando ha saputo dell'incarico di viceministro agli Esteri con il mandato di gestire il rovente capitolo della cooperazione internazionale. L'abbiamo incontrata per parlare delle prospettive e delle sfide che si prepara ad affrontare.
D. Quale è la situazione della cooperazione internazionale?
R. In questi anni la cooperazione internazionale è stata via via smantellata: sono state ridotte le risorse - basti ricordare che nell'ultima Finanziaria il contributo italiano per gli aiuti allo sviluppo è stato ridotto allo 0,1% del Pil. Noi contiamo dl riportarla sugli standard Onu, per lo meno allo 0,7%. Anche in questo settore, come in altri ministeri, si è voluto utilizzare il criterio dello Stato-impresa determinando in modo verticale gli interventi piuttosto che impiegare le competenze tecniche a disposizione.
D. Quali sono esattamente i poteri di un vice-ministro?
R. E' delegato dal presidente del Consiglio, ovviamente in accordo con il ministro degli Esteri, a occuparsi di alcune Direzioni generali con grande autonomia, naturalmente in un quadro di coerenza necessario non solo da un punto di vista tecnico-amministrativo ma anche politico. Proprio sulla cooperazione il programma dell'Unione si proponeva di ripotenziare la struttura tecnica attraverso l'istituzione di un sottosegretariato - o meglio ancora un vice-ministro - anche per ripristinare un metodo di dialogo che in questi anni è stato cancellato. Rifondazione comunista ha espresso in questi anni la critica alla globalizzazione liberista e quindi, per quanto mi riguarda, questo sarà il mio riferimento. Si tratta di ripristinare la struttura tecnica potenziando l'interdipendenza dei vari soggetti, e quindi anche dei diversi popoli e dei diversi Stati, per uscire dall'approccio assistenziale e coloniale ma anche dalla logica della sicurezza. Dobbiamo quindi sgombrare il terreno da questa mina vagante della guerra umanitaria: gli interventi di cooperazione saranno fatti dalla società civile in un rapporto di coerenza con il programma di pace e di solidarietà che condividiamo.
D. Una vera e propria rifondazione della cooperazione allo sviluppo?
R. Nel programma si sottolinea la necessità di ricostruire i legami con settori del ministero dell'Economia e dell'Ambiente per ricollegare gli interventi della cooperazione alle politiche interne. Insieme al movimento internazionale abbiamo espresso la critica alla globalizzazione ma nel contempo abbiamo anche tentato di tradurre idee alternative in esperienze concrete trasversali alle singole competenze. Parlare di beni comuni nel trattare la difesa delle risorse naturali e culturali significa mettere in discussione i rapporti con i paesi del sud del mondo. Come si può proporre la privatizzazione dell'acqua in questa prospettiva? Dobbiamo pensare a politiche diverse per incrementare lo sviluppo, fermo restando che il dibattito su cosa s'intende per sviluppo è tutt'altro che concluso.
D. Quanto della tua esperienza nel processo dei forum sociali porterai con te?
R. Io credo che il movimento ci abbia cambiati profondamente. Oggi, se penso a un'esperienza istituzionale come quella di cui stiamo parlando, non posso certo slegarla dai grandi temi che ci sono stati indicati dal movimento. Penso ad esempio all'impegno per la sovranità alimentare: i popoli indigeni che abbiamo incontrato a Porto Alegre, a Mumbai o a Bamako, ci hanno fatto capire quanto fosse importante la lotta in difesa della sovranità alimentare. L'anno prossimo andremo al forum mondiale di Nairobi non solo come protagonisti nel movimento ma anche per portare una soggettività politica istituzionale nuova. Per anni ci siamo confrontati anche con le esperienze di governo dell'America Latina, dall'Ecuador alla Bolivia, dal Brasile al Venezuela... Ora possiamo offrire qualcosa in più dell'amicizia: una stretta collaborazione. Ti faccio un esempio concreto: molte delle leader che abbiamo incontrato durante il social forum di Mumbai oggi hanno incarichi di governo. Perché allora non allacciare relazioni anche su di un piano istituzionale? Certo, prima dobbiamo ricomporre i fili e rimettere insieme anche i nessi politici. Per questo mi interessa molto riallacciare i rapporti con le ong ma anche con gli Enti locali. In Italia c'è una rete avanzatissima dal punto di vista della cooperazione decentrata, che è riuscita a organizzare interventi importanti pur disponendo di pochissimi fondi. La nuova assunzione di responsabilità non deve cancellare le esperienze di movimento ma, nel rispetto dell'autonomia dei ruoli, può rafforzarle e valorizzarle.
D. In Italia la cooperazione allo sviluppo ha una pessima fama. Come ci si prepara a sedersi su di una poltrona così incandescente?
R. Credo che occorra puntare alla discontinuità totale fermo restando che, per non fare un discorso meramente superficiale, la trasparenza va costruita e non semplicemente enunciata. Solo il contatto con la società civile e con i movimenti locali ti dà la possibilità di conoscere la situazione, i problemi, le difficoltà. Credo sia fondamentale pensare all'attivazione di istituti di democrazia partecipata. Penso ad esempio a tutte le vertenze territoriali nel nostro paese che sono irrisolvibili se non vengono attivati meccanismi di questo genere.
D. Una delle critiche che vengono dal sud del mondo è che gli aiuti alla cooperazione finiscano per aiutare solo le nostre imprese
R. Ricordo l'accusa scagliata da Aminata Traoré nell'incontro sui beni comuni che si è tenuto l'anno scorso a Liegi contro quelle ong multinazionali che mirano più alla propria valorizzazione che a risolvere i problemi locali. Bisogna fare entrambe le cose: valorizzare le organizzazioni non governative e favorire la responsabilizzazione e la crescita delle realtà sociali e politiche con cui si coopera. Ma non bisogna dimenticare anche il rapporto con l'Ue che deve essere sensibilizzata su temi quali la sovranità alimentare, i beni comuni e via dicendo. Lavorare per una vera politica di pace significa anche restituire sovranità alle istituzioni democraticamente elette e quindi destituire di importanza i vari G8, Wto e Banca Mondiale.
D. Dove è finita la diffidenza di Rifondazione nei confronti del mondo delle ong?
R. Credo che sia i partiti che le ong debbano superare la gerarchia ortodossa che vede la politica sovraordinata rispetto alla società civile. Non va bene però nemmeno la versione ribaltata, con le ong a gestire gelosamente il proprio territorio limitandosi a chiedere l'intervento del governo al momento giusto. L'esperienza del movimento ci ha insegnato a pensare per reti orizzontali dove anche i partiti, che certamente hanno delle responsabilità diverse, possono fornire a chi sta nelle istituzioni non solo uno sguardo ma un canale di comunicazione diretto. D'altro canto favorire l'auto-organizzazione non significa sostituirsi ad altri soggetti sociali come a volte è avvenuto in Italia e all'estero. Da questo punto di vista le esperienze della democrazia municipale sono preziosissime: la democrazia partecipativa non sostituisce quella rappresentativa né avviene il contrario. Si avvia un dialogo che a volte può essere anche conflittuale, ma è assolutamente necessario.
D. Questo discorso è stato assorbito nel partito?
R. Direi che i lavori sono in corso. Abbiamo aperto a un'innovazione nella pratica sociale che ci ha portato anche a ridefinire un pensiero, specialmente fra i giovani. Non a caso parliamo del "fare società", ovvero costruire le condizioni perché i soggetti sociali sappiano rideterminarsi come protagonisti della trasformazione sociale. In questo quadro anche l'azione di governo non è finalizzata solo alla governabilità ma anche alla trasformazione sociale ed è quindi uno strumento per mettere in moto processi e reazioni. Trasparenza non significa solo rendere leggibili i rapporti di forza ma anche poterli modificare.
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