Domani a Trento Predrag Matvejević presenterà il suo ultimo libro, edito in Italia da Garzanti, in un incontro promosso dal Forum trentino per la Pace e i Diritti Umani nel quadro di un percorso di approfondimento su Europa e Mediterraneo. La recensione
Libri sul pane ne escono di continuo. Basta una ondata di nuova moda del cibo, di recupero di alimentazioni decadute ed escono libri, storie, summae, antologie sul pane. Il pane e l’uomo, il pane e la sopravvivenza dell’umanità, il pane - il vino e il corpo del Cristo, il pane e il dono all’uomo e al suo lavoro della Natura e del soprannaturale. Nella storia del pane è difficile distinguere la materialità di questo cibo dalla sua sacralità. Il pane, ancora oggi, anche in occidente, conserva sulle mense operaie e contadine un’aura sacra.
Della unità chimica – corpo, cibo, trasformazione, transustanziazione, natura e noi – il poeta gallese Dylan Thomas, nel 1933 canta: “Questo pane che spezzo un tempo era frumento,/ questo vino su un albero straniero/ nei suoi frutti era immerso;/ L’uomo di giorno o il vento nella notte/ piegò a terra le messi, spezzò la gioia dell’uva.// In questo vino, un tempo, il sangue dell’estate/ batteva nella carne che vestiva la vite;/ un tempo in questo pane,/ il frumento era allegro in mezzo al vento;/ l’uomo ha spezzato il sole e rovesciato il vento. // Questa carne che spezzi, questo sangue a cui lasci/ devastare le vene, erano un tempo/ frumento ed uva, nati/ da radice e da linfa sensuale./ E’ il mio vino che bevi, è il mio pane che addenti.” Il pane è una presenza costante, ossessiva nei Libri dell’Uomo: l’Antico e Nuovo Testamento, il Corano, le scritture cuneiformi e pittografiche, i rotoli del Mar Morto, l’Odissea, i geroglifici egizi.
Nei libri e in tutte le tavole imbandite e mense improvvisate del Mediterraneo – il granaio d’Europa – nei tascapane dei viandanti, nelle stive dei naviganti, nelle salmerie degli eserciti, nelle madie contadine, nei mulini e nelle macine girate dalle braccia degli schiavi a Roma (i romani conoscevano benissimo le tecniche del macinare con la ruota d’acqua e le pale al vento, ma il lavoro degli schiavi costava meno). Tutti gli storici di scuola materiale si dedicano alla vicenda, all’epica, alla saga, della spiga del frumento, della farina e del pane. Lievitato e meno [il lievito è proibito da Mosè nella fuga dall’Egitto, il rito dei pani azzimi viene spiegato con la fretta e la durata del viaggio, ma gli ebrei vedono nella fermentazione qualcosa di corrotto, di impuro; nel Nuovo Testamento invece è detta l’efficacia del lievito che trasforma la pasta].
Lo storico zagrebese di scuola braudeliana Predrag Matvejević narra nell’appena edito libro Pane nostro (Garzanti, Milano, traduzione di Silvio Ferrari) come nello scisma tra Oriente e Occidente “i dignitari cristiani d’Oriente ritenevano che il lievito fosse il simbolo del destino o della salvezza. Definirono azzimisti i loro fratelli cattolici in Cristo e questi ultimi a loro volta definirono gli ortodossi prozimisti o, in base alla lingua latina, fermentarii. Il pane lievitato utilizzato dagli ortodossi venne definito per disprezzo a Roma panis cavernosus… Lo scisma tagliò in due i Balcani, l’eresia Bogumila che si radica in Bosnia non faceva distinzione fra pane lievitato e non lievitato…”.
L’opera più esauriente scritta sul pane si intitola Sechstausend Jahre Brot (Seimila anni di pane) del tedesco Heinrich Eduard Jacob. Quando si parla di libri sul pane si parla di imprese antologiche e di compendio gigantesche, e/o di propositi culturali di una vita. Una bibliografia italiana sul pane non può prescindere da Il pane e la sua storia di Luraschi, da Pane selvaggio di Camporesi, dal recente Pane di ieri [el pan ed sèira, l’è bon admàn – il pane di ieri è buono domani] di Enzo Bianchi, priore del monastero di Bose, e da questo Pane nostro di Predrag Matvejević. L’autore è noto. La sua opera maggiore è Breviario Mediterraneo, utile libro scritto mettendo a fuoco gli scambi e le mescolanze indotte dalle vie di mare. Matvejević è stata una nobile presenza laica e illuminata nel decennio di orrori e di estremismi etnocomunitari che ha segnato la fine del suo Paese, la Jugoslavia. La sua pagina si regge sulla ripetizione, su un ritmo sincopato ed ellittico. In chiusura del volume racconta perché da sempre ha pensato di scrivere un libro sul pane. L’impegno nasce durante la seconda guerra mondiale – Matvejević è del 1930 – quando il padre lo manda di nascosto a consegnare mezza pagnotta a dei prigionieri tedeschi affamati, e uno di loro piange davanti al lui ragazzino.
Matvejević (di Matteo) è nato a Mostar da padre russo originario di Odessa, indugia dunque sulla storia del pane nella penisola balcanica: il somun non lievitato, rotondo e di pasta morbida dentro al quale si serve la carne, come a Sarajevo; il kruh, nome del pane comune nella accezione croata; il pane dell’assedio, quello che il governo bosniaco distribuiva alla popolazione durante l’assedio della capitale; la pekara, la spiga di grano, e la velepekara, la fabbrica del pane di Sarajevo, il grande forno di tanto in tanto colpito per pura rappresaglia dalle granate sulla città assediata e affamata (aprile 1992- febbraio 1996). E il pane che entrava nella città assediata sulle gerle portate a spalla da decine di sherpa che entravano e uscivano dal tunnel sotto l'aeroporto. Il pane infine degli zingari, i gypsies: «Un mio amico, rom o zingaro, come volete voi, mi ha aiutato – scrive Matvejević – a conoscere ed annotare alcune differenze sul loro pane. Lo chiamano manro, o maro o manho. Chiamano la farina arho… La pagnotta e la focaccia degli zingari sono appetitose. C’è molta saggezza nelle loro massime sul pane, “se picchiassero il povero con il pane, bacerebbe la mano di chi lo percuote”; “se sulla terra ci fosse pane per tutti, si svuoterebbero le chiese e i tribunali”».
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