Per il Consiglio d'Europa la risposta delle autorità armene alle proteste del marzo scorso è da considerare repressione e contravviene in molti casi alla Convenzione Europea per i Diritti Umani
Per la prima volta dopo l'adesione del Paese al Consiglio d'Europa avvenuta il 25 gennaio 2001 assieme all'adesione della Repubblica dell'Azerbaijan, l'Assemblea Parlamentare del Consiglio d'Europa (PACE) si trova a discutere dell'esistenza di prigionieri politici in Armenia, ma questa volta potrebbero essere sollevate questioni chiave in materia di diritti umani.
Con la risoluzione 1620 del giugno scorso l'Assemblea ha posticipato alla convocazione plenaria del gennaio 2009 l'esame sulla situazione democratica in Armenia, estendendo così di un semestre il tempo a disposizione delle autorità armene per adottare le riforme necessarie a rispettare i propri impegni internazionali.
La discussione del gennaio 2009 sull'effettiva adozione delle Risoluzioni 1609 e 1620 della PACE si baserà principalmente sull'esito di una relazione di Thomas Hammarberg, Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d'Europa, in merito allo stato delle indagini giudiziarie, dei detenuti e delle attività della commissione ah hoc incaricata dell'inchiesta sugli eventi del 1 marzo.
La relazione è attesa per settembre 2008 ma già da tempo (da ultimo in occasione della sua recente visita nel paese) il Commissario Hammarberg sottolinea l'urgenza di "rilasciare immediatamente tutte le persone incarcerate senza aver commesso di persona alcun atto di violenza o gravi reati e detenute sulla base di accuse apparentemente artificiali e motivate politicamente". Questa è anche una delle principali richieste espresse dalla Risoluzione 1609, che le autorità armene devono impegnarsi a soddisfare entro inizio 2009.
In Armenia, in riferimento alle persone trattenute in carcere in seguito agli scontri del 1 marzo, sono ormai in uso due tipologie di espressioni: "persone detenute su accuse apparentemente artificiali e motivate politicamente" o "prigionieri politici". La prima espressione è utilizzata in varie relazioni delle organizzazioni internazionali, la seconda è in gran parte utilizzata dalle forze di opposizione in Armenia.
La questione è molto delicata e di difficile definizione nei Paesi di giovane democrazia. Come si può distinguere? Dove è il confine tra persone imprigionate "regolarmente" e prigioniero politico? La teoria come definisce il "prigioniero politico"? Esistono criteri generali? Come è stato giustamente ricordato, il termine non è "in alcun modo straordinario".
Le persone incarcerate dopo gli scontri di marzo possono essere definite come prigionieri politici sulla base di criteri oggettivi alla luce della giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti Umani e delle norme del Consiglio d'Europa?
Tale domanda era stata posta già nel 2001, quando il Consiglio d'Europa aveva inviato una missione di esperti in Armenia ed Azerbaigian - appena dopo la loro adesione al Consiglio stesso - per indagare se questi paesi stavano detenendo prigionieri politici. In quell'occasione per la prima volta sono stati elaborati criteri oggettivi per definire il campo di applicazione del termine "prigioniero politico" Vedi Stefan Trechsel "The notion of 'Political prisoner' as defined for the purpose of identifying political prisoners in Armenia and Azerbaijan" Human Rights Law Journal Vol. 23, No.8-12, p.293..
Prima di tutto, è bene specificare che "prigioniero politico" non è un termine tecnico-giuridico, è usato nei dibattiti politici; "reato politico" è invece pienamente riconosciuto come termine giuridico, essendo considerato un'eccezione sulla base della quale rifiutare l'estradizione.
"Prigioniero politico" come categoria ha una connotazione negativa. Un prigioniero politico è una persona che è privata della sua libertà per motivi politici piuttosto che strettamente legali e plausibili alla luce della certezza del diritto. Tuttavia i difetti di questa definizione sono evidenti. Lo Stato non ammetterà mai di detenere persone per motivi politici e riuscirà facilmente a giustificare la privazione della libertà come legittimo perseguimento di uno degli scopi elencati nel secondo comma dell'articolo 5 della Convenzione Europea per i Diritti Umani. L'individuazione di altri criteri certi è dunque di vitale importanza.
Come punto di partenza per stabilire dei parametri oggettivi si sono adottati i requisiti esposti nella giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti Umani. In base ai criteri ivi delineati una persona è da considerarsi prigioniero politico in uno dei seguenti casi:
quando viene privata della sua libertà per ragioni politiche;
quando l'interferenza con il suo diritto alla libertà non può essere giustificata in termini di Convenzione Europea dei Diritti Umani;
quando, pur essendo giustificata l'interferenza, i mezzi impiegati non sono proporzionati allo scopo perseguito;
quando, rispetto ad altre persone, la detenzione è basata in maniera discriminatoria su opinioni politiche;
quando è negato il diritto a giusto processo. Questo criterio si applica ai casi che, pur non rientrando nelle fattispecie di cui sopra, sono comunque illegali;
quando, anche se incarcerate per reati non politici, la lunghezza della reclusione è sproporzionata ed è tale per motivi politici.
Infine, un punto di rilievo è la questione della compensazione. Sebbene la legislazione armena non preveda alcun risarcimento in seguito a privazione illegittima della libertà, questo è invece previsto dall'articolo 5 della Corte Europea dei Diritti Umani, che è vincolante per l'Armenia.
Questi sono i criteri esposti sette anni fa per scoprire se ci sono prigionieri politici. Sembra che questi principi possano essere utilizzati di nuovo.
Un certo numero di ricorsi sta per essere depositato presso la Corte Europea per i Diritti Umani di Strasburgo: i cittadini che ricorrono a Strasburgo accusando il governo armeno di essere trattenuti in carcere per motivi politici presentano il loro caso prima facie; toccherà poi al governo chiamato in causa provare che la detenzione è stata invece legittima.
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