Tre documentari, tutti e tre di registi caucasici, hanno ottenuto un grande successo tra il pubblico del Trieste Film Festival. Raccontano tre diverse storie dalle periferie dell'ex impero sovietico. Una rassegna dal nostro corrispondente
Il Caucaso e le periferie dell'ex impero sovietico sono da qualche anno la nuova frontiera di Alpe Adria a Trieste. La manifestazione che ha chiuso la 18° edizione e da poco si è rinominata Trieste Film Festival, ha proposto nel concorso internazionale documentari tre bei lavori sui paesi caucasici.
Uno di questi, "Pod otkrytim nebom - All'aperto" di Arman Yeritsian, ha ricevuto una menzione speciale della giuria ed è stato tra i preferiti dal pubblico (terzo nella classifica), mentre a giudizio degli spettatori "A Story of People in War and Peace" di Vardan Hovnannisyan è stato il secondo dopo il bosniaco "Karneval".
Yeritsian è un trentunenne armeno che ha già all'attivo diversi documentari. In "All'aperto" (una produzione russa) vive per alcuni giorni fra le migliaia di senza tetto di Yerevan. Il loro numero sfugge a ogni censimento, ma le loro condizioni sono di estrema precarietà e grande povertà: non sono giovani, spesso sono malati, si sono ritrovati per strada a causa dei più diversi accidenti della vita, ma quasi sempre legati al disfacimento dell'Urss e alle guerre.
Il regista accompagna due cittadini russi senza dimora nel viaggio nei bassifondi metropolitani. Si rovista fra le immondizie, ci si ripara alla meglio dal freddo, si rischiano malattie e ci si ama.
Con estrema sensibilità l'autore sta con loro e ne racconta con partecipazione anche la morte e il lutto, realizzando un film intimo e polifonico insieme.
"A Story of People in War and Peace" parte da un'esperienza personale. A inizio anni '90 il regista seguì per alcuni giorni, come reporter indipendente, la guerra in Nagorno - Karabakh. Condivise l'esperienza del fronte e della prima linea con alcuni soldati e li filmò. Riprese una battaglia durata 5 giorni al termine della quale metà degli uomini con lui rimasero feriti e un terzo uccisi.
Tornato a casa cercò di dimenticare, di rifarsi una vita, di costruirsi una famiglia. Per dieci anni non riprese in mano i materiali girati in guerra. Poi, mosso dalla domanda "cosa devo raccontare a mio figlio?", decide di andare alla ricerca dei sopravvissuti.
La loro vita, il loro animo sono profondamente segnati da quei giorni, contraddistinti dalla paura, dalla sofferenza ma anche dalla solidarietà e dall'unione. Dalle loro parole esce un po' di nostalgia per il passato e dai loro occhi il dolore perché i morti in battaglia sono stati traditi dai politici, troppo impegnati nella propaganda e negli affari.
Hovnannisyan non fa un reportage o un'indagine, ma si mette in gioco, si rivela in prima persona, alterna materiali di oggi e altri di più di dieci anni fa, riesce a far sentire l'amicizia e gli stretti legami fra i soldati, mostra la morte senza abbellimenti eroici.
Ancora diverso è lo stile del terzo lavoro, "Their Helicopter - Il loro elicottero" della giovane georgiana Salome Jashi. Un film molto curato formalmente, con poche parole, quasi interamente composto di inquadrature fisse.
Siamo in un piccolo villaggio sulle montagne, dove vive la famiglia Ardoteli, un luogo lontano dalla modernità dove non arriva l'energia elettrica e dove per portare l'acqua bisogna avventurosamente collegare un tubo all'altro. Circa dieci anni prima nei prati vicino alla loro casa è precipitato un elicottero militare ceceno. La famiglia ne ha preso i pezzi utilizzabili, poi l'ha lasciato ai bambini come grande sala giochi e alle vacche. Dall'interno dell'elicottero, la regista vede passare i giorni e mostra gli Ardoteli, che sognano di aprire un agriturismo dentro il grande rottame in un luogo fuori da ogni rotta di turisti.
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