La prevenzione del conflitto, l'educazione alla pace, il ruolo della scuola. Kai Brand Jacobsen, direttore dell'ONG romena Patrir, racconta a Osservatorio la cooperazione transnazionale fra Romania e Moldavia
Poco dopo l'inizio delle proteste dello scorso 5 aprile in Moldavia, Patrir (Peace Action Training and Research Institute of Romania) ha rilasciato un comunicato stampa proponendo degli interventi per prevenire ulteriori violenze e invitando gli attori coinvolti a supportare concretamente l'integrità del processo democratico e garantire il rispetto dei diritti fondamentali. Ma quali sono gli elementi e le cause del conflitto? E come si può tutelare e costruire la pace in situazioni di conflitto come quella moldava? Osservatorio ha incontrato il direttore dell'ONG romena Kai Brand Jacobsen.
Da molti anni Patrir guida un programma paese per Moldavia e Transnistria. Qual è l'obiettivo generale di tale programma?
Il programma che siamo stati invitati a guidare comprende diversi aspetti. In primo luogo, proponiamo degli interventi di formazione per rafforzare la trasformazione del conflitto, la mediazione e le capacità di negoziazione di ONG, media e autorità. Inoltre, ci impegniamo con i principali esperti e analisti su un progetto comune che si propone di individuare l'impatto sociale, economico e politico del conflitto dal 1992 ad oggi. Siamo anche stati coinvolti in un progetto che ha portato alla produzione di un documentario sul tema e di un libro che verrà lanciato nelle prossime settimane.
Esiste un'iniziativa regionale di cooperazione nell'area del Mar Nero?
Stiamo lavorando da due anni ad un progetto regionale in collaborazione con istituzioni e organizzazioni di tutta l'area per sostenere l'iniziativa di rafforzamento delle capacità di allerta e prevenzione. Il punto di partenza è riconoscere i conflitti irrisolti, ognuno con le sue dinamiche, ma anche con delle caratteristiche comuni. I programmi principali sviluppati sono due: il primo è la creazione di una piattaforma che collegherà le iniziative della società civile su peace-building, mediazione, giornalismo di pace e trasformazione del conflitto. Il secondo è lo sviluppo di un sistema regionale di allerta e prevenzione, a cui speriamo di lavorare con istituzioni locali e nazionali. Si tratterebbe del primo sistema di questo tipo all'interno dello spazio europeo e dovrebbe coinvolgere analisti e professionisti per monitorare le dinamiche dei conflitti, guardando ai possibili sviluppi, dando raccomandazioni pratiche e proposte a ONG, media, comunità economica e governo, e intraprendendo delle iniziative per colpire le cause originarie, trasformare il conflitto in modo costruttivo e prevenire la violenza.
Come costruite le infrastrutture per le pace?
In primo luogo attraverso l'educazione alla pace nelle scuole. Se ci pensiamo, tutti impariamo la matematica, non importa se diventeremo giornalisti o medici, perché ogni essere umano ne ha bisogno. Tutti noi viviamo dei conflitti, quindi avere l'educazione alla pace nelle scuole significa insegnare a tutti come agire in modo efficace in situazioni di conflitto. In secondo luogo, avere un ministero o un dipartimento per la pace vuol dire riconoscere la necessità di competenze specifiche per governare i conflitti ed educare dei professionisti come avviene nell'ambito del business o in altri campi. La Romania e gli altri nuovi stati membri UE hanno bisogno di incrementare i loro programmi internazionali di cooperazione e di sviluppo, ma al momento non hanno persone formate per poterlo fare. Una delle nostre proposte è di fornire dei servizi di pace nazionale e di sviluppo che possano formare professionisti e supportare organizzazioni locali e nazionali così come le istituzioni. In Romania abbiamo l'International Peace and Development Training Center, con sede a Cluj Napoca, i cui corsi sono stati frequentati da persone provenienti da oltre 100 paesi - leader politici, ministri, capi area delle Nazioni Unite provenienti da tutto il mondo così come da organizzazioni varie, e persone direttamente coinvolte in accordi di negoziazione per porre fine alle guerre nei loro paesi.
È stata discussa in Romania la necessità di istituire un Ministero della Pace?
In Romania stiamo ancora attraversando un periodo di transizione, e talvolta l'idea di creare nuovi dipartimenti governativi e nuovi ministeri e burocrazie non verrebbe molto apprezzata. Sarebbe ideale creare all'interno del Ministero degli Affari Esteri un settore specializzato di peace-building, prevenzione della crisi e stabilizzazione post-conflitto. In pratica, all'interno della cooperazione allo sviluppo si potrebbe dare la priorità al supporto di questo settore. Già ora, possiamo notare come tutti i paesi a cui è stata assegnata la priorità da parte della Romania come paesi target per la cooperazione allo sviluppo (Moldavia, Georgia, Serbia, Iraq, Afghanistan) sono paesi colpiti da conflitto.
Quando all'inizio di aprile sono iniziati gli scontri a Chişinău, Patrir ha rilasciato un comunicato stampa proponendo degli interventi per prevenire un'ulteriore escalation di violenze. A chi era rivolto e quali erano le vostre proposte?
Il comunicato stampa era rivolto agli attori principali coinvolti nella situazione, ovvero partiti politici, organizzazioni della società civile e media, oltre che l'Unione Europea, gli stati membri, le organizzazioni locali e nazionali moldave e altri che volevano impegnarsi per prevenire l'aggravarsi della situazione. Abbiamo fatto una serie di proposte: tra le più immediate, lo smorzamento dei toni e la responsabilizzazione di leader politici e mass media, il cui linguaggio crea un contesto decisamente polarizzato. Abbiamo suggerito alle organizzazioni di società civile e alle leadership politiche di riconoscere i legittimi diritti alla partecipazione politica democratica, ma anche che questa resti uno spazio libero dalla violenza sia dei dimostranti che della polizia. Noi come Istituto siamo del tutto imparziali, non sosteniamo nessun attore in particolare, e il nostro obiettivo principale è cercare di incoraggiare il multipartitismo, trattenere dal demonizzare, invitare a fronteggiare la violenza e fornire informazioni accurate a tutte le parti coinvolte.
Le elezioni sono un motivo comune di conflitto?
Molto spesso sono ciò che noi chiameremmo "detonatore". Uno studio realizzato all'interno del Commonwealth mostra che circa il 60% dei conflitti armati si sviluppano sulle elezioni o su temi collegati. Che si stia parlando di Moldavia, Transnistria o perfino di Kenya, si può vedere che le elezioni che avvengono in comunità colpite da conflitti sono spesso delle micce per aumentare tensioni e violenze. Poiché le elezioni si organizzano con largo anticipo, dovremmo concentrarci - cosa che al momento non avviene - sulla preparazione: individuare gli scenari possibili, le reali opzioni in campo, le dinamiche sociali, politiche ed economiche. Ciò che noi facciamo come Istituto in queste situazioni è cercare di impegnarci con gli attori principali, prepararli in anticipo e creare un contesto in cui si possano tenere elezioni libere da ogni violenza. Una delle cose che abbiamo caldeggiato nel caso della Moldavia è stato assicurare uno spazio democratico per tutti i partiti. Questo non solo per i dimostranti, ma anche per coloro che hanno votato per gruppi differenti, per garantire il rispetto di tutte le posizioni e opinioni.
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