Un viaggio virtuale tra Paesi diversi, definiti dall'esterno come area politica e culturale omogenea. Dai reportage di Terzani nella periferia dell'Unione Sovietica al rinnovato confronto Usa-Russia nella regione
Di Massimiliano Di Pasquale
"Sono arrivato a Baku, pensando che qui l'abbondanza del petrolio avesse almeno lasciato qualche traccia di ricchezza, ma la prima impressione è quella di essere atterrato in un'altra, sporca, svogliata, triste città dell'Unione Sovietica, solo con più macchine, più inquinamento, più umanità".
Così scrive Tiziano Terzani nel settembre del '91 visitando la capitale azera un mese dopo il golpe anti-Gorbaciov che di lì a poco sancirà la dissoluzione dell'Urss. Le pagine del fotoreporter fiorentino su Azerbaijan, Georgia e Armenia - tappe finali di un viaggio di due mesi nell'agonizzante Unione Sovietica - offrono uno spaccato davvero significativo sul Caucaso del Sud all'indomani del crollo dell'impero. Quest'area geografica conosciuta anche come Transcaucasia - nome affibbiatole dai russi in epoca zarista - ha subìto nel corso dell'ultima decade mutamenti politici e sociali così profondi che la sua stessa denominazione potrebbe non aver più alcun significato.
È quanto sostengono diversi analisti politici e gran parte dei diretti interessati, gli abitanti di Azerbaijan, Georgia e Armenia. La questione, va da sé, non è affatto terminologica, ma investe la più complessa sfera politica in relazione al nuovo ruolo del Caucaso del Sud nello scacchiere internazionale.
Alla luce delle profonde differenze politiche, economiche, sociali e religiose che si riscontrano a Baku, Tbilisi e Yerevan ha ancora senso considerare la Transcaucasia un'area geopolitica omogenea? La semplificazione adottata da Nato, Ue e Federazione Russa non rischia di essere fuorviante vista la diversità degli indirizzi di politica estera intrapresi da questi tre Paesi?
Cercheremo di offrire alcune risposte a questi complessi quesiti tenendo conto dei nuovi equilibri politico-economici determinatisi in questa zona in relazione all'avvicinamento all'orbita Nato della Georgia, alla politica di autosufficienza dell'Azerbaijan e ai buoni rapporti con Washington dell'Armenia, l'ex repubblica più leale a Mosca.
Un mai risolto problema di identità
Esiste un'identità transcaucasica che accomuna gli abitanti di Baku a quelli di Tbilisi? Nella capitale georgiana un cittadino interrogato a tal proposito da Salome Asatiani, giornalista di Radio Free Europe, si è sentito rispondere che la Georgia è semplicemente la Georgia e che il suo Paese non ha niente in comune con i due stati confinanti. Gli ha fatto eco un residente di Baku che ha sottolineato come parlare di Caucaso del Sud non abbia nessun significato e che gli azeri vogliono sentirsi parte di blocchi più grandi. Risposta leggermente diversa quella di una signora di Yerevan che, rimpiangendo i tempi passati in cui vi era grande unità tra i tre popoli, stigmatizza le divisioni odierne.
Peraltro leggendo le pagine di "Buonanotte Signor Lenin" di Terzani, scritte sedici anni fa, emerge a chiare lettere come anche in epoca sovietica le relazioni tra azeri, georgiani e armeni fossero tutt'altro che idilliache. Basti pensare a quelle tra Azerbaijan e Armenia già in guerra sin dal 1988 per la questione del Nagorno Karabakh, uno dei tanti conflitti congelati del Caucaso. Il collante allora era il regime sovietico. Venuto meno questo, la formazione di stati indipendenti e la riconquistata libertà di culto, dopo anni di ateismo di stato, hanno rimarcato le profonde differenze esistenti tra questi popoli. In particolare tra un Azerbaijan in prevalenza musulmano, e Georgia e Armenia, dove predominano confessioni cristiane.
Interessanti anche le conclusioni di uno studio condotto dallo psicologo georgiano Gaga Nizharadze che ha cercato di capire se sia mai esistita una identità caucasica in quanto tale.
Nonostante gli innumerevoli aneddoti su georgiani, armeni e azeri imperanti in epoca sovietica - tutti peraltro basati su rappresentazioni caricaturali e stereotipate del "caucasico del sud" come uomo ospitale, eccentrico, dai capelli neri e dai lunghi baffi - le ricerche dimostrano come questo senso di identità sia piuttosto debole ed emerga solo occasionalmente allorché cittadini di questi tre stati si trovino in territorio russo. Ma in questo caso sarebbe forse più corretto parlare di solidarietà tra popoli che, specie in tempi recenti, sono stati oggetto dell'odio xenofobo delle frange più estremiste dei movimenti nazionalisti della Federazione.
Il ruolo odierno della Russia nel Caucaso del Sud
Questione non affatto peregrina all'interno dell'intricato problema identitario del Caucaso del Sud, è quella relativa all'influenza di Mosca in questa regione. Non foss'altro perché furono i russi ai tempi dello zar i primi a chiamare questa area Transcaucasia come puntualmente ricorda Alexander Iskandarian, direttore del Caucasus Media Institute di Yerevan: "La gente che abitava in queste zone - sottolinea Iskandarian - non comprese mai questa unificazione semplicemente perché non era mai esistita in precedenza. Prima dell'impero russo gli abitanti del Caucaso del Sud si sentivano cittadini o sudditi dell'Impero Persiano, dell'Impero Ottomano. O preferivano definire se stessi in termini più localistici".
È opinione condivisa che questa costruzione geopolitica artificiale imposta dall'esterno si sia consolidata grazie alla russificazione e poi alla sovietizzazione dei popoli armeni, georgiani e azeri e all'imposizione del russo come lingua ufficiale. Per questo motivo è fondamentale comprendere quali siano oggi i legami politici, economici e culturali che legano Mosca alle tre ex repubbliche caucasiche.
Un valido contributo in tal senso è fornito dal politologo Thomas de Waal, ricercatore all'Institute for War and Peace Reporting di Londra. La teoria di de Waal è che il rinnovato vigore economico e politico della Russia di Putin ha paradossalmente finito per far perdere terreno al Cremlino in Caucaso. In altri termini, con il ritorno della Federazione al ruolo di potenza internazionale, le politiche riguardanti quest'area sono state gestite con un'ottica di breve periodo e non sempre in modo lungimirante.
"A causa dell'embargo russo sul vino georgiano e su altri prodotti agricoli, la Georgia ha aperto la sua economia e i suoi mercati ad altri Stati. Analogamente in Azerbaijan le politiche miopi di Gazprom hanno spinto il Paese verso l'Occidente. La stessa cosa sta succedendo in Armenia dove i cittadini georgiani hanno potuto protestare di fronte all'ambasciata russa a Yerevan contro la xenofobia nella Federazione".
La tesi di de Waal trova concordi sia Ivliane Khaindrava, deputato georgiano d'opposizione del Partito Repubblicano sia Rauf Mirkadyrov, giornalista del quotidiano azero "Zerkalo".
Mentre il politico georgiano sottolinea come i giorni in cui la Russia poteva imporre diktat sulla futura annessione di Tbilisi alla Nato sono ormai finiti, Mirkadyrov evidenzia come proprio in questi ultimi mesi l'atteggiamento del Cremlino verso la politica estera dell'Azerbaijan sia cambiato. I russi avrebbero preso atto dell'impossibilità di agganciare a sé Baku in funzione anti-georgiana. L'incognita Iran e l'avanzare della Nato, in uno spazio prima saldamente nelle mani del Patto di Varsavia, avrebbero indotto Putin a formulare la proposta di uno scudo missilistico congiunto con gli americani proprio in Azerbaijan.
Anche a Yerevan, dove le elezioni parlamentari di maggio hanno visto trionfare il partito repubblicano filorusso del Primo Ministro Serzh Sarkisian, gli uomini d'affari stanno riorientando i loro business verso Occidente. La Russia nonostante la crescita economica degli ultimi anni - sostiene Stephan Grigorian, direttore del Centro per la Globalizzazione e la Cooperazione Internazionale della capitale armena - non sembra infatti in grado di garantire quel patrimonio di conoscenze tecnologiche, scientifiche e industriali necessarie per lo sviluppo di un Paese come l'Armenia.
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