Il Consiglio europeo dello scorso giugno ha sferrato un altro colpo alle speranze di Albania e Macedonia del Nord di aprire i negoziati di adesione all’UE. Per gli altri paesi dei Balcani la situazione non è molto più incoraggiante
Dopo aver già rimandato la decisione nel 2018, il 18 giugno scorso il Consiglio europeo non ha trovato un accordo unanime e ha stabilito che per l’Albania e la Macedonia del Nord i negoziati di adesione apriranno, forse, il prossimo ottobre. Questo potrebbe frustrare ulteriormente i due paesi che, con gli accordi di Prespa in Macedonia del Nord e il vetting giudiziario in Albania, hanno visto i rispettivi governi impegnati in riforme importanti, messe in atto per persuadere gli stati dell’Unione europea a dare il via libera alle negoziazioni.
Le motivazioni che hanno portato il Consiglio ad esprimere un parere negativo, sostenute in primis dalla Francia di Emmanuel Macron, sono state sostanzialmente strumentali e la decisione è stata figlia delle molte trattative in atto fra i massimi decisori europei, i paesi membri. Questo soprattutto se si considera che la Commissione europea aveva dato per ben due volte parere positivo all’apertura dei negoziati di adesione per Tirana e Skopje.
Per quanto riguarda gli altri paesi della regione, Serbia e Montenegro hanno già aperto le negoziazioni con l’Unione europea ma queste sostanzialmente sono in una fase di stallo. La Serbia deve affrontare il problema della soluzione delle relazioni con il Kosovo - condizione necessaria per la chiusura dei negoziati -, del deteriorarsi della libertà dell’informazione e dell’erosione degli standard democratici. In Montenegro vi è una corruzione endemica che sta rendendo difficili i negoziati con l’UE. Bosnia Erzegovina e Kosovo, invece, non sono nemmeno ancora ufficialmente candidati.
Queste difficoltà hanno alimentato nella regione un senso di scetticismo nei confronti dell’UE. Come mostrano le rilevazioni del Balkan Public Barometer, Albania e Kosovo sono i paesi in cui la popolazione vede con maggior favore un eventuale ingresso nell’Unione europea. Nel caso kosovaro il sostegno è però drasticamente sceso nel 2019 - forse anche a causa delle resistenze da parte dell’UE nel concedere ai cittadini kosovari la libera circolazione all’interno dei propri confini.
Anche in Macedonia del Nord e Montenegro si sta invertendo la tendenza che aveva visto crescere negli ultimi anni il supporto all’Unione europea. In Bosnia Erzegovina e Serbia, invece, meno della metà della popolazione vede positivamente la partecipazione del proprio paese al processo di integrazione europea.
Per quanto la Commissione europea abbia delineato nel 2018 una strategia credibile per la prospettiva di allargamento verso i paesi balcanici, la regione sembra più lontana oggi, rispetto a pochi anni fa, dall’obiettivo di diventare parte integrante dell’Unione. Da un lato, nei paesi dei Balcani si sta assistendo a una crescente resistenza alle riforme socio-economiche e politiche richieste dall’UE, se non a dei veri e propri passi indietro rispetto ai progressi fatti nel passato. Dall’altra, l’Unione europea, a causa delle sue molteplici crisi interne, è meno concentrata sull’allargamento di quanto non fosse fino ad alcuni anni fa.
Se gli stati membri dovessero continuare a strumentalizzare l’apertura o il prosieguo dei negoziati con i paesi balcanici, invece di pensare a un’Europa a 33, i Balcani rischiano di rimanere uno spazio escluso. Rischiano di essere lasciati a stagnare in una condizione di crisi permanente, verso la quale si reagisce solo con tattiche di breve periodo, tese ad arginare le degenerazioni più violente e le loro ripercussioni sull’Europa tutta. Servirebbe invece una strategia credibile in grado di risolvere i problemi di fondo, di cui le crisi non sono che i sintomi: reali prospettive di ingresso nell’Unione europea sarebbero la soluzione più efficace.
Questo articolo è pubblicato in associazione con lo European Data Journalism Network ed è rilasciato con una licenza CC BY-SA 4.0
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