Un'immagine tratta dal film "Vergine giurata"

Sara da anni lavora con Operazione Colomba nel nord dell'Albania. Ed assistere alla prima di "Vergine giurata" della regista Laura Bispuri a Tirana è stato come un ritorno a casa

10/11/2015 -  Sara Ianovitz

(Articolo originariamente pubblicato sul portale di Operazione Colomba il 5 novembre 2015)

L’atmosfera frizzante della serata di apertura del TIFF – Tirana International Film Festival  accoglie il pubblico vario che affolla il cortile del cinema Millennium di Tirana. Sono presenti i giornalisti, locali e internazionali, ci sono i cinefili, ci sono gli esponenti del panorama culturale tiranese e ci sono anche i volontari di Operazione Colomba, che vivono da anni nei territori più difficili dell’Albania. L’occasione per una serata nella capitale è offerta dalla première albanese del film “Vergine giurata”, in albanese “Burrnesha”, un film coprodotto da Kosovo e Italia, liberamente ispirato all’omonimo romanzo di Elvira Dones.

 

Tema del film è la vicenda di una donna che, accolta orfana in una famiglia delle montagne dell’estremo nord albanese e cresciuta come una figlia insieme all’unica figlia naturale della coppia, sceglie di vivere da uomo, trasformandosi nel figlio mai avuto dei suoi genitori adottivi, e continuando la tradizione paterna di pastorizia. Stanca di questa vita difficile e dolorosa in un territorio ostile, un giorno decide di recarsi dalla sorella emigrata nel frattempo in Italia, dove riscopre la sua natura femminile e inizia un percorso di riemersione di sé e della sua reale natura.

Per me era la seconda proiezione, ne avevo avuto un primo assaggio a Milano, in una sala semideserta, dove già avevo apprezzato la recitazione in albanese della protagonista Alba Rohrwacher e l’assoluta fedeltà alla realtà dei luoghi dove si sono ambientate fino a qualche anno fa le storie vere delle vergini giurate albanesi; la regista Laura Bispuri ha voluto girare proprio in Albania le scene di ambientazione locale, cogliendo gli elementi più selvaggi della natura. Dalla mia poltrona nel cinema meneghino, avevo provato la stretta di nostalgia tipica di chi rivede un luogo del cuore riproposto in chiave cinematografica, come teatro di una storia crudele.

Già avevo ammirato la scelta di usare la metafora del nuoto sincronizzato – lo sport che pratica la nipote della protagonista Hana/Mark, più volte riproposto nel film – per rappresentare le sensazioni di chi ha vissuto una vita in apnea, aspettando di liberarsi dall'ottundimento dell’immersione in acqua per respirare a pieni polmoni.

Mi siedo sulle scale del cinema Millennium di Tirana e insieme agli altri volontari attendo emozionata l’inizio: presentare questa tematica, così tradizionale e così segreta, qui in Albania non è semplice, né immediato. Il pubblico è perlopiù cittadino e lontano dalle tradizioni più arcaiche di questo popolo, ma tra le attrici principali vi sono due giovani sorelle che provengono proprio da Tropoja, la zona più remota delle montagne albanesi, nonché sede di una presenza di Operazione Colomba. Negli occhi di chi ogni mese si reca lassù a condividere il dolore di chi vive faticosamente tra le montagne – i nostri occhi – rispecchio la mia stessa emozione: le immagini del battello sul fiume e i colori delle rocce sono familiari. Quante volte ho percorso quella strada, con la pietra grigia a destra e l’acqua cristallina a sinistra; forse sentiamo più aria di casa noi che gran parte del pubblico in sala, pur di nazionalità albanese.

Ogni tanto, qui e là scappa una risata dovuta all’imbarazzo di un pubblico poco avvezzo a vedere rappresentata in modo esplicito la sessualità e l’identità di genere. La regista, infatti, ha sfruttato l’occasione di una tradizione antica, per riflettere sul tema sempre attuale della femminilità e sulla libertà derivante da scelte diametralmente opposte: una sorella è fuggita all’estero con l’uomo che ama, evitando un matrimonio combinato; l’altra è rimasta in montagna, trasformandosi in un uomo e conducendo una vita dura e solitaria. L’incontro/scontro di Hana/Mark con la propria femminilità ha risvolti che possono apparire comici. Mi stupisco di me dinanzi alle reazioni del pubblico; alle risate contrappongo una sorta di risentimento, come se mi sentissi empatica con la protagonista. Saranno scherzi della condivisione diretta con le famiglie di Tropoja? Vergini giurate non ne ho mai viste, ma l’asprezza dei luoghi e dello spirito sono elementi che si trangugiano con il raki (grappa albanese) anche nelle case che visita quotidianamente Operazione Colomba. Talvolta la risata che vuole stemperare l’imbarazzo mi pare abbia un’eco inopportuna e poco rispettosa della sofferenza altrui.

A fine proiezione, il giudizio sul film è positivo, nonostante alcune traduzioni poco accurate   dall’albanese all’inglese nei sottotitoli, che non fanno cogliere tutte le sfumature culturali sottese; un esempio su tutti: in una delle scene di epilogo, il termine “trimerie” – letteralmente eroismo – viene banalizzato in “coraggio”, perdendo così la profondità semantica di una parola, che qui è riferita alla difficoltà delle scelte di vita delle due donne. Parimenti, alcuni riferimenti alla cultura profonda del popolo albanese si annacquano in una sottotitolatura sintetica e a volte frettolosa. Ma, a parte questo, colpisce la delicatezza del personaggio maschile del marito di Lila (la sorella fuggita all’estero), che si relaziona a Hana/Mark nel pieno rispetto della sua scelta passata, trattandola come un vero uomo delle montagne. Altresì stupisce la sensibilità dell’attrice protagonista nell’approcciarsi a un ruolo ambiguo, in bilico tra due identità, due mondi, due ruoli.

Ci avviciniamo al parterre per complimentarci con la regista e le due giovanissime interpreti delle sorelle, presenti in sala; subito riconosco la timidezza delle ragazze del nord, che arrossiscono dinanzi alle strette di mano e alle congratulazioni. Inspiegabilmente, mi sento a casa, e ritrovo le medesime espressioni delle ragazze che preparano il caffè nelle famiglie coinvolte nelle faide che frequento ogni giorno. La mentalità si assorbe tazzina dopo tazzina di caffè turco, che si tratti di vergini giurate o di vendette di sangue.

Esco dalla sala con la sensazione di aver assistito a un ritratto di famiglia. Come tutti, di fronte alla propria famiglia – di nascita o elezione che sia – provo un misto di amore viscerale e pudore; vorrei saper proteggere le nudità più esposte dal giudizio troppo severo di chi taccia questa società di bieca ignoranza, e contemporaneamente non lasciarmi sopraffare dalla tradizione più conservatrice, sfidarne la chiusura mentale e scalfirne le asperità. Vorrei riuscire a entrare nella cultura intima di un popolo e trasformare gli elementi più retrivi in opportunità di cambiamento, partendo dal molteplice ruolo della donna nella società per arrivare all’eliminazione del fenomeno della vendetta.

Fuori dal cinema, mi incammino nelle luci notturne di Tirana; risuona ancora nelle orecchie il rumore dei campanacci delle capre, nel silenzio di una distesa innevata sulle montagne del nord. Tropoja, ci rivediamo tra qualche giorno.


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