Una veduta del Parco nazionale di Dangëlli, Albania - foto di Camilla de Maffei

Parco nazionale di Dangëlli, Albania - foto di Camilla de Maffei

"Questo è il mio posto, non c'è alcun altro luogo dove potrei essere". Shahin, come suo padre e prima ancora suo nonno, si prende cura del bosco. Lo abbiamo incontrato a Borockë, sud dell'Albania

13/08/2020 -  Christian Elia

(Quest'articolo fa parte del webdoc Dollibashi )

“Vedete quelle due tombe, sulla collina? Sono mio padre e mio nonno. Uno a fianco all’altro. Hanno chiesto di essere sepolti là, per continuare a guardare il bosco”.

Shahin Mehmeti prende un caffè, sembra scolpito dal sole. Sua moglie non sta ferma un attimo, accogliendo, prendendosi cura di lui e degli ospiti. “Sono nato in questo villaggio, Borockë, sono cresciuto qui, vivo ancora qui e non andrò mai via. Come mio padre e mio nonno mi prendo cura del bosco. E’ una tradizione di famiglia, anzi, possiamo dire che il bosco è parte della nostra famiglia.”

Shahin è il ranger che protegge la foresta, che è diventata il parco nazionale di Dangëlli, ma che per tutto è Bredhi i Hotoves, l’abete di Hotova. Qui ci sono abeti millenari, a poco più di 30 chilometri da Permet, nella regione di Frashëri. “Son più di 34mila ettari di bosco, sono censiti 1200 abeti”, spiega Shahin. Abeti speciali, enormi, detti ‘abete della Macedonia’. Protetti da generazioni dalla famiglia dei Mehmeti.

“Mio nonno per 40 anni è stato una guardia forestale, ha iniziato sotto la monarchia di re Zog e poi con l’occupazione italiana. Aveva la sua divisa, ne era molto fiero. Abbiamo attraversato la vita di questo paese, occupandoci del bosco, guardando il mondo cambiare dal nostro villaggio. Mio nonno, durante il periodo dell’occupazione italiana, venne fermato da una pattuglia di carabinieri italiani. Lo scambiarono per un ladro di legna: il nonno si infuriò, proprio lui sentirsi dar del ladro. Finì con una scazzottata, nonno venne arrestato e passò due anni in carcere in Italia”, racconta ridendo Shahin, “ma ne aveva un buon ricordo! Era stato trattato bene, mangiare e dormire, e aveva visto un po’ di mondo. Poi venne la guerra, mio nonno andò con i nazionalisti, suo fratello piccolo con i partigiani. Hanno continuato a litigare per questo per tutta la vita, ma alla fine mio nonno era fedele solo al bosco. Quando le sue ginocchia hanno iniziato a dargli problemi, ha iniziato a farsi accompagnare da mio padre. E quando è arrivato il comunismo, tutte le terre – che per un periodo erano appartenute alla chiesa dei Bekteshi locale che ne sfruttava la legna con due segherie – sono state prese dallo Stato e il bosco è diventato della cooperativa agricola di questo villaggio.”

E così il padre di Shahin continua il lavoro del nonno. “C’era una pianificazione annuale: il legno buono finiva per la produzione di carta, quello meno buono ad alimentare il riscaldamento e le aziende che producevano altro, come per esempio i caseifici. E non si buttava via niente: le foglie finivano distillate per un’essenza preziosa. Pensate che lo stipendio annuo, a quel tempo, di un dirigente era circa 6mila lek al mese e un chilo di essenza di abete poteva valere fino a 70mila lek. Era prodotto per essere venduto all’estero.”

Shahin cresce in quegli anni, prendendo poi il posto del padre nel 1984. “In fondo la vita dei villaggi rurali in Albania non è mai cambiata tanto, anche se sono cambiati tanti regimi. E’ sempre stata una vita dura, di lavoro e di bosco. Ma la differenza è che prima, quando io e mia moglie eravamo giovani, questo villaggio era vivo. C’erano tanti bambini, le attività della casa del popolo erano tante, il teatro, la musica. Certo, eri costretto all’alba, prima di andare a lavorare, a sentirti la lettura dei quotidiani del partito, mentre stavi ancora dormendo, ma il nostro villaggio era pieno di vita. Oggi no, siam rimasti pochi, i figli vanno via e questo a volte è triste.”

Shahin Mehmeti on his mule

Shahin Mehmeti, photo by Camilla de Maffei

Oggi il lavoro di Shahin è enorme. “Mi occupo di monitorare un’area vastissima, per prevenire incendi, per censire le piante e occuparmi di loro, per combattere il bracconaggio. Ma la vera impresa, oggi, è controllare la produzione di droga. Ho la responsabilità di evitare piantagioni, o nascondigli, solo che non è facile. Con quali mezzi? Il mio mulo. Con quali colleghi? Sempre il mio mulo”, racconta senza mai smettere di sorridere Shahin. “In casi estremi posso contare sulla polizia di Stato, ma di base sono solo. Anche se il periodo più brutto è alle spalle ed è stato quello dell’anarchia della fine degli anni Novanta. Nessuno mi pagava lo stipendio, ma io ho continuato a proteggere il bosco. Se trovavo gente che tagliava mi offrivo di aiutarli. Non potevo impedirlo, erano armati, ma almeno cercavo di scegliere le piante per far meno danno possibile e lottavo per spegnere gli incendi che nascevano. A un certo punto ho messo della dinamite sulla strada, per impedire il passaggio a grossi camion. E’ stato brutto: non c’era un nemico, era la tua stessa gente.”

Nei suoi giri a dorso di mulo, Shahin si ferma spesso in una foresteria attrezzata molto bella all’interno del parco, per i turisti e i visitatori. Prepara un buon caffè, si siede su una delle panche di legno all’ombra di alberi spettacolari. E tira fuori il suo flauto, di legno. Suonando una melodia struggente.

“Mi fa compagnia suonare. Per me il bosco è quella sensazione di freschezza, di umido, che senti sulla pelle. Il bosco è i miei due abeti preferiti. E il bosco è il suono di un uccello, l’allodola. Canta come piangesse. Esiste una leggenda, dicono che piange per il dolore di una donna che ha perso il fratello. Siamo figli di questo posto, nel mio villaggio il bosco era come un dio, che ringraziavamo quando arrivava la pioggia, perché il nostro villaggio non veniva inondato, ma solo bagnato e reso fertile dall’acqua necessaria. Questo è il mio posto, non c’è alcun altro luogo dove potrei essere.”

 

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