La transizione dell’Albania vide un fortissimo fenomeno migratorio. Una prima fase iniziò nel luglio 1990, quando migliaia di cittadini albanesi occuparono a Tirana le ambasciate straniere, chiedendo asilo politico. Un racconto
(Questo racconto è stato pubblicato originariamente su Albania News)
Pesante quel luglio... Caldo, soffocante il luglio ‘90..
Pesante l’aria che si respirava in tutta l’Albania, ma in quei giorni dell’inizio del mese, soprattutto a Tirana.
Quella mattina mi svegliai spaventata. Voci, rumori, urla, lamenti, dappertutto. Li sentivo arrivare da vicino, molto vicino. Pensai ad una tempesta in piena estate e mi affacciai alla finestra per guardare fuori. Mi resi subito conto che la tempesta non sarebbe stata niente in confronto a ciò che stava accadendo proprio accanto allo stabile dove vivevo insieme alla mia famiglia.
Se vi spiegassi dov’era la nostra palazzina, allora forse qualcuno inizierebbe a fare dei collegamenti...
Accanto all’Ambasciata italiana..!
Un’enorme folla si era radunata davanti all’ambasciata e aspettava il momento opportuno per scavalcarne il recinto. La polizia cercava in tutti i modi di respingerli. La nostra casa si trovò ad un certo punto in mezzo a due fuochi: da una parte l’ambasciata, dall’altra la folla. I poliziotti avevano fatto un cordone, di seguito un semicerchio e cercavano di convincere la gente che si trattava di un passo azzardato.
Noi osservavamo tutto da dentro casa. Ci stava succedendo un fenomeno strano: noi eravamo lì vicino, eravamo già ‘sul posto’, avevamo il privilegio di essere più facilitati come posizione per entrare nell'ambasciata, eppure stavamo dentro casa nostra.
Intanto guardavo fuori, scrutavo la folla, ma non conoscevo quasi nessuno. Quella gente era arrivata anche da altre città e poi la capitale era talmente grande e quella situazione talmente confusa!
Devo dire che c’era tanta gioventù. Erano in maggior parte studenti, ragazzi universitari, che rispetto all'Ambasciata italiana si trovarono molto ‘comodi’, più che per altre ambasciate, per il fatto che vicino a casa nostra si trovava la ‘Città degli studenti’. Era il centro di aggregazione giovanile, i dormitori degli studenti universitari. Era allo stesso tempo, come si può immaginare, il punto più caldo della ribellione al sistema.
Riuscii alla fine a notare due o tre ragazzi del nostro quartiere, un po’ più grandi di me. Uno, la madre lo rincorreva e lo supplicava di non andare e di non rischiare. Ho in mente come se fosse ieri le parole di quella donna, quando chiamava il figlio. Più che altro, poveri genitori...! Non è che non desiderassero che i figli intraprendessero il volo verso la libertà ed una vita migliore, ma il fatto era che in quei momenti nessuno aveva le idee chiare su cosa sarebbe accaduto. Nessuno aveva la certezza che il paese in questione, l’Italia, così come tutti gli altri paesi che in quei giorni stavano subendo gli stessi assalti presso le loro rappresentanze diplomatiche in Albania, li avrebbero accettati o se, piuttosto, li avrebbero consegnati alle autorità albanesi.
Il ragazzo non girò neanche la testa ai richiami della madre, perché secondo me, non ce l’avrebbe fatta a resistere nel caso avesse visto la sofferenza nei suoi occhi. Proseguì deciso imbattendosi nel cordone dei poliziotti.
Ad un tratto, sulla nostra porta di casa si sentirono dei colpi forti. Qualcuno, o meglio, più di uno, bussava con tutte le forze.
In quegli istanti le ipotesi su chi fosse a bussare erano: si trattava di parenti che ci avevano raggiunti da lontano, con la speranza di dar loro ospitalità nell’attesa della decisione di entrare nell’ambasciata; era la polizia che già cominciava ad essere diffidente rispetto a chi abitava nelle case dei dintorni...; era un gruppo di studenti che cercava aiuto... Questa terza ipotesi fu quella esatta!
Aprimmo la porta senza esitazione e una decina di ragazzi giovani si presentarono davanti ai nostri occhi. Con molta gentilezza ci chiesero di offrire loro ospitalità, anche se per pochi minuti. Alcuni avevano bisogno di un po’ d’acqua da bere e di risciacquare il viso, alcuni sofferenti per il caldo iniziavano già a sentirsi male, altri ci dissero che avevano fame... Chissà da quante ore stavano ammassati lì fuori... Li accogliemmo volentieri, offrimmo loro acqua e pane. Semplicemente un pezzo di pane per ciascuno, con un pezzo di formaggio, un pomodoro, o delle uova sode. Non ricordo bene ma, mia madre portò sulla tavola tutto ciò che ci trovavamo in casa. Anche della confettura, del miele, un po’ di latte e dello yogurt.
E’ facile comprendere che non avevamo lo spazio e le comodità per poter cucinare per tutti, non solo: non era neanche il momento adatto.. e ricordo che mia madre si dispiacque per questo... Loro si sedettero tutti a terra, non c’erano posti a sedere a sufficienza per tutti, era normale. Dopo aver riposato per un po’ ci ringraziarono affettuosamente e uscirono fuori, mettendosi in fila, in attesa del momento più proficuo per il grande passo..!
Mia madre era quasi svenuta. Tutta questa gioventù stava rischiando la vita e l’Albania stessa ne avrebbe risentito le conseguenze..Quanta gioventù che stava tentando di scappare, quante risorse, quante braccia, ma anche quanti ‘cervelli’ che stavano fuggendo...
Il campanello di casa tornò a suonare... Era mio cugino questa volta. Un mio carissimo cugino, lo consideravo come un fratello.
“Ancora qui sei? - mi disse con un tono agitato e ansioso - preparati velocemente che entriamo! L’Italia, noi ce l’abbiamo qui, a un passo, ma non vedi? Siamo più vicini di tutti con l’Italia, saremo i primi ad entrare lì dentro... Guarda, basta allungare un po’ il piede, e sei già in terra italiana..."
“Ma dove vuoi andare, sei matto?”,gli risposi..
C’era una grande complicità ed intesa tra di noi. Mi sono trattenuta molto per non seguirlo, bastavano pochi secondi e la vita cambiava in maniera radicale, determinata dalle decisioni di quegli attimi... L’età nostra, giovanissima tra l’altro, faceva da acceleratore per le decisioni. Mi faceva paura, non lo posso negare ,tutto il contesto: la rivolta di per sé, i miei soli 16 anni, la reazione della polizia, il futuro incerto di quella gente e perché no, la gente stessa, sconosciuta, arrivata da tutta l’Albania.
Tutto questo e il fatto che la mia famiglia non era intenzionata a muoversi da casa (almeno per il momento), fecero sì che, con le lacrime agli occhi, salutassi mio cugino. Lui, in ambasciata, ci entrò da solo.
L’ambasciata, bella, grande, accogliente era lì, a pochi passi! Le sue non sembravano delle semplici ringhiere. Le sue sembravano fortificazioni simili al muro di Berlino. Non per la loro costituzione, forma o altezza, ma per l’effetto che facevano alla gente che stava lì fuori, in attesa di scavalcarle, nella speranza e nell’attesa di andare a cercare una vita del tutto nuova e migliore.
Quest’ambasciata aveva comunque dato speranza agli albanesi e li aveva rassicurati nell'atteggiamento deciso mostrato nel prendersi cura di una famiglia albanese che risiedeva con loro se non erro, da cinque lunghi anni, nell'attesa si espletassero le procedure che resero possibile l’accettazione della loro richiesta di asilo politico e di portarli fuori dall’Albania.
Poi arrivò il momento tanto atteso. Non so se i poliziotti iniziarono a reagire meno, o se la folla si fece un coraggio da non credere.
Mi suonavano alle orecchie le note della mia canzone ! La chiamavo ‘mia’ a quei tempi, “The wind of change”, – “Il vento del cambiamento” della band tedesca Scorpions. La conoscevo a memoria. Mi sembrava di sentire il loro leader, Meine cantare lì, per tutti noi...
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