Un Paese che si è liberato da un regime di terrore e che in vent'anni ha fatto enormi passi in avanti. "Siamo di fronte a una popolazione molto più consapevole dei propri diritti, delle prospettive del suo Paese e soprattutto molto più critica nei confronti della sua stessa classe politica". Un commento. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

08/02/2011 -  Francesca Fondi*

Un paese che ha subito quasi mezzo secolo di regime di terrore, che ha vietato non solo la protesta, ma anche la libertà di culto e di espressione.

Un popolo che in un paio di decenni ha ricostruito da zero un paese annientato dall’autocrazia e che con passi da gigante si sta dirigendo verso il traguardo (ancora lontano?) europeo, passando attraverso momenti bui e drammatici, quali il crollo finanziario del 1997 e la crisi del Kosovo nel 1999.

A questo popolo, che sta imparando a manifestare il proprio disagio e a prendere coscienza dei propri diritti e libertà, va innanzitutto il rispetto e la solidarietà per aver cercato di svoltare da una situazione che evidentemente non é più accettata come poteva esserlo fino a poco tempo fa.

Era da più di un decennio che l’Albania non viveva tensioni tali da sfociare, venerdì 21 gennaio, in una contestazione di massa conclusa con la conta di tre morti. Tre vittime, a quanto mostrano i video, di una polizia filogovernativa che non ha esitato a ricorrere alla violenza e a colpire a sangue freddo cittadini disarmati (perché così sono risultati i partecipanti alla manifestazione) di fronte alla presidenza del Consiglio dei Ministri, in un boulevard affollato e presto deturpato dall’effetto di lacrimogeni, idranti, pietre e auto incendiate.

Esattamente una settimana dopo, il 28 gennaio, un’altra manifestazione ha visto migliaia di persone unite in un mesto corteo per onorare i tre civili deceduti durante gli scontri. Un momento organizzato con tutti i crismi dall’opposizione al governo, che ha saputo sfruttare l’occasione per raccogliere consensi e partecipazione anche da chi forse non voleva manifestare dissenso politico, ma che si è voluta unire al lutto nazionale di fianco ai familiari delle vittime. Al contrario di quanto era fortemente temuto da più parti (analisti, media e diplomazie nazionali (1) ed internazionali), il corteo che questa volta ha percorso lo stesso boulevard Dëshmorët e Kombit (Martiri della Nazione, quasi un nomen omen), altrettanto affollato, non ha alzato un dito e nemmeno accuse contro i palazzi di governo.

Lo stesso è accaduto anche due giorni fa, quando per il terzo venerdì consecutivo Tirana, e stavolta anche altre tre città albanesi, Vlora, Korça e Lezhe, hanno visto sfilare l’ennesima manifestazione di protesta. Migliaia di persone si sono riunite per esternare la loro insoddisfazione e desiderio di cambiamento. Ancora una volta una civile manifestazione sullo stesso viale, solo un po’ più a nord.

Ho percorso quella strada centinaia, forse migliaia di volte in quattro anni. Anni in cui ho condiviso molto di quel popolo che ha deciso di far sentire la propria voce, con chiasso o in silenzio. Anni in cui ho osservato dinamiche sociali, civili e governative da diversi punti di vista: dall’interno, dall’esterno come osservatrice “internazionale”, dalle stesse strade di Tirana.

Ma forse mai come oggi in cui mi trovo geograficamente, ma non mentalmente, lontana da quelle scene, mi sono sentita vicina a un paese che ha visto il sacrificio di tre vite umane per ... per cosa?

Qual è stata la vera ragione di queste successive discese in piazza? Cosa ha portato quelle persone a rimanere in prima linea di fronte agli sbarramenti delle forze dell’ordine in quel 21 gennaio e a dimenticare in fretta la violenza per onorare con dignità i propri morti?

La ricerca delle ragioni prime e ultime di tale “risveglio” della popolazione albanese include un’analisi su due fronti paralleli: quello politico e quello socio-economico. Per quanto correlati, i due piani sono da vagliare separatamente, per capire quali sono effettivamente le forze che spingono il paese a vent’anni dalla caduta del regime comunista forse più rigido e sicuramente più chiuso d’Europa.

Le cronache e i media nelle ultime settimane si sono focalizzati principalmente sul dibattito politico che rimpalla colpe e responsabilità tra la maggioranza del Partito Democratico di Berisha e l’opposizione socialista di Edi Rama, le due figure chiave dello stallo che è “in atto” dalle ultime elezioni del giugno 2009. Dopo più di sei mesi di boicottaggio da parte del partito socialista con l’assenza alle sedute del Parlamento, l’operatività parlamentare è infatti da quasi un anno limitata dalla risicata maggioranza che il partito del premier Berisha è riuscito ad ottenere con alleanze post-elettorali. Nonostante opinioni piuttosto positive ed incoraggianti pervenute dai primi rapporti di monitoraggio elettorale, successive valutazioni, tra cui quelle della Commissione Europea, hanno messo in luce la forte politicizzazione del conteggio elettorale (secondo il Partito Socialista tuttora formalmente non concluso) che ha fortemente compromesso gli esiti della tornata elettorale, in quanto nessuno dei due maggiori partiti era riuscito ad ottenere una indiscussa maggioranza.

Quello che emerge dall’ultimo anno e mezzo di instabilità politica è che il governo in carica è venuto meno a promesse elettorali, puntate tutte su un futuro di integrazione europea (l’annessione all’Alleanza atlantica era avvenuta appena pochi mesi prima delle elezioni), con manifesti che tappezzavano la città con bandiera europea e logo della NATO. Immagini che facevano sognare un popolo che fino al 1990 non beveva coca-cola e non poteva oltrepassare i propri confini.

Il “sogno” è stato alimentato dall’ufficiale (ma forzata dal Governo allora uscente di Sali Berisha, in quanto sconsigliata da ogni parte della comunità internazionale) domanda di candidatura all’UE presentata in un aprile pre-elettorale, ma si è poi “infranto” in un rapporto della Commissione del novembre scorso, che evidenzia un percorso ancora impegnativo e complesso che attende l’Albania prima dell’ingresso nell’Unione. Rapporto che non da ultimo sottolinea come l’attuale stallo politico non solo a livello parlamentare ma anche del dialogo non costruttivo tra le parti possa costare forti rallentamenti nel processo di integrazione.

La manifestazione del 21 gennaio scorso era quindi indirizzata al governo in carica, diretta verso il palazzo della Presidenza del Consiglio, che doveva essere peraltro preparata alle programmate manifestazioni del PS già dal giorno 16, quando il vice primo ministro Ilir Meta (ironicamente, ma non troppo, colui che ha dato la svolta al Partito Democratico a seguito dei risultati delle elezioni del 2009) è stato costretto alle dimissioni a seguito della pubblicazione di un video che dimostrava il suo coinvolgimento in episodi di corruzione.

D’altronde questa è stata solo la goccia che ha fatto traboccare il vaso, considerando che fatti del genere sono noti alla scena politica albanese: basti pensare al simile caso dell’ex Ministro della Cultura Pango, dimissionario nel 2009 a causa di uno scandalo sessuale; ma anche allo stesso Premier Berisha, travolto, sempre nel 2009, da accuse relative ad appalti truccati per la costruzione della “Durres-Kukes”, l’autostrada che collega Albania e Kosovo inaugurata (a lavori non terminati) in piena campagna elettorale e considerata l’opera pubblica più costosa mai intrapresa dall’Albania. Ferito, ma non abbattuto.

Questo sul piano politico. Ma per quanto i socialisti di Rama abbiano animato (e organizzato) le recenti manifestazioni di protesta, anche a seguito degli a quanto pare volgari e insostenibili toni utilizzati in Parlamento e delle accuse di corruzione che hanno colpito il vice primo ministro Meta, le motivazioni dei recenti movimenti sono da ricercare anche in altro.

La rabbia che è esplosa è una rabbia che fa trapelare un disagio crescente da parte della popolazione, dovuta principalmente ad una situazione economica che, nonostante le rassicurazioni da parte delle autorità governative, risente fortemente della crisi internazionale.

In questo senso i dati parlano chiaro: il PIL albanese è passato da una crescita ininterrotta dal 1998 con una media almeno del 6% annuo (6.5% nel 2008), a un 2.2% nel 2009 a un probabile 2.3% nel 2010 (2); il Lek (moneta albanese) ha visto una perdita rispetto all’euro e al dollaro di più del 10% negli ultimi 5 anni (3), con una conseguente perdita del potere d’acquisto non solo fuori dal paese, ma anche al suo interno, visto che la stragrande maggioranza di prodotti alimentari e non provengono dalla zona euro/dollaro.

E’ da considerare inoltre che l’Albania è un paese dalla forte componente emigratoria che negli ultimi venti anni ha contribuito in maniera sostanziale alla crescita dell’economia nazionale grazie a consistenti flussi di rimesse provenienti dall’estero: si stima che il contributo abbia sfiorato una media del 15% del prodotto interno lordo annuo, una percentuale pressoché da capogiro. La crisi economica che ha colpito l’economia mondiale dalla fine del 2008 sta però facendo sentire i propri effetti anche in questo senso: i primi dati indicano che nel 2010 c’è stato quasi un dimezzamento delle rimesse, facilmente giustificabile, soprattutto considerando che la maggior parte provengono dai due paesi limitrofi di Italia e Grecia. Senza contare il fatto che i contributi provenienti dai migranti vengono quasi esclusivamente utilizzati per consumi a breve-medio termine e non per investimenti in attività/infrastrutture sul medio-lungo periodo: ne consegue quindi una diretta diminuzione generale dei consumi, che si ripercuote negativamente sui dati macroeconomici di un’economia non ancora del tutto stabile e soprattutto caratterizzata da una grossa componente informale (la cosiddetta “grey economy”). La disoccupazione crescente unita a redditi interni in calo, quando non assenti, ha fatto il resto.

Il clima di incertezza economica che evidentemente è conseguito, è stato percepito e riconosciuto dalla popolazione albanese e, unitamente alla crescente insoddisfazione per una situazione politica altrettanto instabile e alla sua crescente corruzione, ha creato le basi per una adesione particolarmente sentita alle manifestazioni di piazza. E’ pertanto bastato poco per far ritornare in mente echi di immagini e notizie della fine degli anni ’90. Per non parlare dei rimandi ai recenti casi di Tunisia ed Egitto che in queste settimane stanno ricoprendo le prime pagine dei media di tutto il mondo, casi “scoppiati” a distanza di pochi giorni e che, mutatis mutandis, hanno rappresentato certo per gli albanesi (società “mediatica”, come è stata definita) un incoraggiamento, una prova che il cambiamento è possibile, anche se a caro prezzo.

Non è pero’ il caso di drammatizzare, come parte dei media internazionali sembravano voler fare, rincarando la dose delle raccomandazioni che dopo poche ore dalla prima manifestazione del 21 gennaio sono arrivate da Bruxelles e dalla compagnia cantante della comunità internazionale. Invocare la calma è d’obbligo, considerando anche la facilità con cui gli animi balcanici si infervorano quando è in gioco non solo il loro futuro, la loro dignità e quella dei loro figli, ma anche e soprattutto il loro presente. Così come è opportuno richiamare governo e opposizione ad un possibile negoziabile compromesso tra le parti politiche per il bene del paese, come anche il Consiglio d’Europa ha recentemente sottolineato (4).

Tuttavia non ci sono gli elementi per prevedere scenari apocalittici: tredici anni dopo la quasi guerra civile del ’97 siamo di fronte a una popolazione molto più consapevole dei propri diritti, delle prospettive del suo Paese e soprattutto molto più critica nei confronti della sua stessa classe politica (5).

Assaggiare la libertà, il gusto del consumismo, la possibilità di “farsi da solo”, anche se non importa come, poter far parte di “grandi famiglie” (quali la NATO e l’UE) ed essere considerati alla pari degli altri. Questo ha portato gli albanesi a passare dal “nulla” degli anni del comunismo al volere “tutto”. Nel frattempo, la transizione è difficile e non sarà breve. Ma stanno dimostrando di avere le carte per potercela fare e soprattutto che non intendono giocarsi il percorso compiuto fino ad ora e compromettere un avvicinamento all’Europa (quella con la E maiuscola) per colpa di una crisi politica che, lasciata nelle mani dei due leader di partito, rischia di infossare un intero paese.

 

(1) I media riportano di duemila poliziotti antisommossa schierati per l’occasione nonché cinquanta soldati della Guardia repubblicana, oltre a filo spinato e cecchini sui palazzi circostanti la Presidenza del Consiglio.

(2) Dati della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale (proiezioni per il 2010).

(3) Dati della Banca d’Albania.

(4) Assemblea Parlamentare del Consiglio d’Europa: comunicato stampa n. 096 del 3 febbraio 2011.

(5) Non si dimentichi che il crack finanziario del ’97 era stato causato anche dalla indiscussa fiducia della popolazione verso il governo di allora (sempre sotto la leadership di Sali Berisha) che aveva supportato i fallaci investimenti nei cosiddetti “schemi Ponzi”, permettendo la loro crescita fino al crollo definitivo, che provocò, si stima approssimativamente, la perdita di circa la metà del PIL dell’anno precedente (il 1996).

 

* Francesca Fondi è attualmente PhD candidate in "Political Systems and Institutional Change" presso l'IMT Alti Studi di Lucca, ha vissuto e lavorato a Tirana (UNICEF e Cooperazione Italiana) per quattro anni, dal 2006 al 2009


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