Nevila Nika ha passato la vita presso l'Archivio di stato albanese. Il suo racconto degli anni del regime di Enver Hoxha, con le nonne che erano le uniche a tener vivo nei loro racconti il sogno della libertà
"Siamo stati tra i primi, a Tirana, a sapere che Enver Hoxha era morto. Una delle mie colleghe all'Archivio di stato abitava di fronte alla clinica dove lo avevano portato, avevano notato un gran via vai di alti papaveri del regime. Si sapeva che qualcosa di grosso era accaduto e poco dopo Radio Tirana diede l'annuncio ufficiale. E ho pianto, tanto, ma non per lui, ho pianto per me e per tutti noi. Ho pianto perché ho pensato: è accaduto comunque troppo tardi, nessuno ci ridarà più gli anni che se ne sono andati".
Nevila Nika, con eleganza, si muove a suo agio tra le sale dell'Archivio che è stato il suo mondo. Ci ha lavorato dal 1976 al 2005, ne è diventata direttrice fino alla pensione, nel 2013, ed è stata la prima donna assunta all'archivio e la prima donna a dirigerlo. Entrambi elementi dei quali è molto fiera.
"Io sono una privilegiata, perché ho avuto una vita migliore di tanti albanesi. Eppure piangevo, per me e per loro, ma resto consapevole che posso lamentarmi molto meno di tanti altri. Appartenevo a una famiglia privilegiata: mio nonno paterno è stato uno dei padri dell'identità albanese, una figura di spicco degli anni tra la Prima Guerra mondiale e gli anni Venti, un nazionalista, impegnato nella causa pan-albanese tra Kosovo, Macedonia e Montenegro. Mio padre è stato un partigiano, questo ci ha garantito una vita tutto sommato serena, anzi, con un accesso alla cultura che per altri era un sogno. A casa mia arrivavano giornali e riviste, grazie a un caro amico di mio padre. Un uomo straordinario, pittore e poeta. Ecco, se penso alla figura del 'dissidente' ripenso sempre a quell'uomo. Nessuno lo poteva toccare, perché sua sorella era un pezzo grosso del regime, ma lui era trattato come un paria, perché non nascondeva le sue idee. Non si è mai spostato, non ha mai voluto figli, perché sapeva che gli avrebbe rovinato la vita. Faceva il bibliotecario nella facoltà di Pedagogia, dove insegnava papà: avevamo un codice. Io arrivavo da lui, con una borsetta, e gli dicevo 'mi manda papà'. Lui sorrideva e metteva nella borsa le riviste straniere. In facoltà arrivavano, perché per il regime i docenti dovevano leggerle, ovviamente per criticare il capitalismo secondo loro. E io e mio fratello, a casa, le divoravamo! E studiavamo le lingue. C'è una signora italiana, che non ho mai conosciuto, ma che per me è di famiglia: Armida Roncari! Autrice di Prime letture italiane per stranieri. È sul suo libro che ho studiato l'italiano di nascosto!".
Nevila è innamorata del suo lavoro, della cultura, della memoria. Ed è affascinante ascoltarla raccontare, nel silenzio delle sale di lettura dell'Archivio, attraversato da presenza silenziose.
"Ho avuto la fortuna di vivere, da ragazza, gli anni più liberi del regime. I vestiti, le gonne più corte, i ragazzi con i capelli più lunghi. Si riusciva a organizzare serate danzanti, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. C'è stata, a un certo punto, la possibilità di organizzare una versione locale del Sanremo italiano. Che gioia! Si chiamava Festivali i Këngës, avevamo la nostra Patty Pravo, si chiamava Vaçe Zela. Il regime, però, reagì. Hoxha disse che si stava perdendo l'anima della rivoluzione comunista, l'ortodossia. Recentemente ho portato, in una lettura pubblica, il dossier della Sigurimi (i famigerati servizi di sicurezza del regime ndr) su un ragazzo. Le accuse contro di lui erano di aver dichiarato, al bar, che Majakovskij era scarso e che Paul Valéry, quello si, era un grande poeta. E poi lo accusavano di amare la musica, a lui piaceva Adriano Celentano, e lo scrivono bene il nome, mentre per Ray Charles scrivono male, perché non sapevano chi fosse. Questo rende l'idea dell'abbrutimento di queste persone che hanno rovinato la vita a migliaia di persone".
Nevila è una di quelle persone che non fa sconti al regime, che non salva nulla. "Sì, c'è stato un fermento culturale in quegli anni, ma di base si viveva un inganno. Il regime celebrava la liberazione delle donne, ma le donne albanesi erano attive – come tutte – già dagli inizi del Novecento, il regime si vantava dell'elettrificazione del paese, ma a che serviva in un mondo dove non c'era nulla da far funzionare con l'elettricità?".
Anzi, forse una cosa la salva. "L'ironia degli albanesi, la forza d'animo dissacrante che ci ha fatto resistere, in mezzo alle famiglie e agli amici portati al confino, con i divorzi imposti dal regime che distruggevano le famiglie. Riuscivamo a tirare avanti sussurrandoci le battute, i nomignoli, ridendo di noi stessi e del nostro destino. Ricordo un paio di barzellette di quegli anni. Una raccontava di Nixon e Breznev che si sentono al telefono sulla famosa linea rossa tra Washington e Mosca. Il primo dice al secondo che sta leggendo la Bibbia, mentre Breznev gli dice che sta leggendo L'imperialismo ultima fase del capitalismo. Breznev gli spiega che il proletariato sta scavando la fossa del capitalismo, ma Nixon – citando la Bibbia – gli dice che alla fine chi scava la fossa rischia di cascarci dentro", racconta Nevila, ridendo ancora. "O un'altra, che racconta di un gruppo di turisti che in Africa finisce nelle mani dei cannibali. Questi ultimi promettono salva la vita a chi saprà dire loro una parola che non conoscono. Muoiono tutti, tranne il turista albanese, che pronuncia la parola plenum (organo dirigente del partito comunista ndr). I cannibali si complimentano, avrà salva la vita, perché quella parola non la conoscono, ma deve spiegare loro che significa. E l'albanese spiega che il plenum funziona come la riunione dei cannibali: tutti in cerchio si mangiano a vicenda".
E l'ironia 'nera' degli albanesi riguardava anche i 'nomignoli'. "Per esempio chiamavamo Taiwan un edificio costruito dai cinesi, perché come l'isola anche noi speravamo di liberarci dei comunisti" spiega Nevila, "o chiamavamo Broadway una strada del centro, con i suoi negozietti tipici, niente di che, ma per noi era la strada di grido dove andare a farsi guardare dai ragazzi e bere una birra. Su tutti, però, il nome migliore resta la 'piramide', come chiamammo il monumento costruito in centro come tomba di Hoxha. In quegli anni il Kinostudio, la Cinecittà dell'Albania comunista, comprava film dall'estero e in quei mesi c'era un film sui faraoni. Ecco, lui si pensava come un faraone, non solo per la forma della sua tomba, ma per tutti gli schiavi senza alcun diritto o libertà grazie a cui avevano costruito l'edificio".
Il passato, però, non ha fermato il futuro. Nevila, ricordando, si alza e si avvicina alla finestra, guardando l'Albania di oggi. "Non so se tutto è andato come immaginavo quando è finito il regime. All'epoca la cultura non era libera, ma rispettata. Oggi mi pare il contrario. Però non era facile, da questa finestra ricordo l'estate del 1991. Un fiume di persone che cercavano ogni mezzo per andare a Durazzo e imbarcarsi verso l'Italia. Erano così tanti che io e gli altri impiegati, all'inizio, pensammo a un terremoto. E ricordo le prime elezioni libere, il 31 marzo 1991. Sono rimasta a lungo nel seggio... ero commossa... mi sentivo felice, volevo assaporare quel momento. Ma credo che tanta strada è stata fatta, alla libertà bisogna dare il tempo di mettere radici. Si può fare meglio, ma si è fatto quel che abbiamo potuto. Sapevamo di amarla la libertà, ma non la conoscevamo. C'è un'immagine, che ho ancora davanti agli occhi, che è quella che per me racconta meglio gli albanesi. Stavo andando in ufficio, nel 1991. Era appena uscito il primo giornale libero. Ricordo migliaia di persone, disposte a pagare fino a 300 lek per un giornale che ne costava 3. Solo per il gusto di poterlo fare. Ecco, tanto tempo è passato, c'è tanto da fare, ma la libertà l'abbiamo sempre amata. Non l'abbiamo mai dimenticata la libertà, grazie alle nonne. Perché è stata quella generazione, quelle donne, che raccontavano il mondo di prima a noi e così ci hanno tenuto vivo un sogno. Dobbiamo solo imparare a gestirlo".
Il progetto
Grande Padre è un longterm project nato dall'incontro tra gli sguardi sull'Albania del giornalista Christian Elia e della fotografa Camilla De Maffei. Entrambi impegnati da anni a raccontare un paese vicino e allo stesso tempo troppo lontano nell'immaginario degli italiani, Grande Padre nasce per riflettere su quanto resta degli anni del regime nei comportamenti, nella quotidianità, nella memoria degli albanesi. Nel dicembre del 1990, lentamente, iniziava la fine di un sistema che, dal 1945, aveva pervaso le vite di un popolo intero. Quanto di quei segni, di quegli strati resta ancora oggi nell'Albania che corre veloce – a volte freneticamente – verso un'idea di futuro in continua mutazione? Decine di interviste e reportage sono diventati una collana di fanzine fotografiche, con testo. Ogni fanzine racconta un tema, il primo è MEMORIA. Seguiranno LAVORO, FRONTIERA, CONTROLLO, SIMBOLI. Su OBC Transeuropa riprenderemo una selezione di questo lavoro.
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