A porre fine alla guerra civile albanese del 1997 fu un contingente internazionale a guida italiana. Vent’anni dopo la missione “Alba”, il Presidente del Consiglio che la promosse è tornato nel paese delle Aquile. Un’intervista
Che ruolo ha giocato la comunità internazionale nella transizione democratica dell’Albania? È questa la domanda che l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) ha posto al centro di una conferenza internazionale, organizzata il 6 dicembre scorso a Tirana per celebrare il ventennale della fine della guerra civile e dell’apertura della missione Osce nel paese. L’ospite d’onore è stato Romano Prodi, che in qualità di Presidente del Consiglio, nel pieno della cosiddetta “anarchia albanese”, mise l’Italia a capo di una missione internazionale autorizzata dall’ONU, inviando 3.000 soldati oltre Adriatico. Lo abbiamo intervistato al suo rientro a Bologna.
Professore, oggi tutti celebrano la missione Alba come un successo italiano. Ma torniamo con la mente al 1997: in gennaio le finanziarie piramidali saltano e migliaia di famiglie albanesi perdono i loro risparmi, in marzo le armerie vengono aperte da comuni cittadini e bande criminali, il sud del paese è fuori controllo e il Presidente della Repubblica Sali Berisha dichiara lo stato d’emergenza. Il 28 marzo, ovvero 16 giorni prima che il suo governo lanci la missione, nel Canale d’Otranto una corvetta della guardia costiera italiana sperona la Katër i Radës, una carretta sovietica carica di profughi in fuga dall’Albania: morirono più di 80 persone, tra cui donne e bambini. La missione Alba è un successo-lampo visto con il senno del poi, ma al tempo il contesto era drammatico…
Partecipai di persona ai funerali delle vittime del naufragio della Katër i Radës, per far sentire la nostra vicinanza agli albanesi e far capire che era stata una disgrazia non voluta. Ricordo una folla immensa, un enorme dolore. Conservo un ricordo straziante di quella giornata, ma come rappresentante dell’Italia era giusto e responsabile essere a Tirana; credo che gli albanesi lo abbiano capito, perché non raccolsi risentimento. Venendo all’intervento italiano, la specificità della missione Alba è che fu rapida, durò da aprile ad agosto, e venne portata a termine esattamente nei tempi previsti. Ricordo la grande soddisfazione di Jacques Chirac, che mi disse di non aver mai visto in vita sua una missione internazionale finire nel giorno prestabilito. Ci si era dati un tempo stretto in assenso con le Nazioni Unite e la comunità internazionale, ma devo dire che nei confronti dell’Italia c’era una certa diffidenza sul fatto che saremmo stati capaci di portare a termine una missione di questo tipo. Inizialmente il cammino non è stato facile proprio perché i nostri partner tendevano a tirarsi indietro: a molti paesi l’Albania non interessava. I francesi hanno dato un contributo di peso, con gli altri devo dire che è stata una fatica. Direi che la missione multinazionale fu possibile grazie alla cooperazione italo-francese.
Problemi politici non mancarono nemmeno in patria. Rifondazione Comunista era contraria alla missione e minacciò la crisi di governo, mentre a destra si cercò un appoggio, ma sulla questione migratoria e sulla tragedia della Katër i Radës in particolare non mancarono le strumentalizzazioni.
Quando si prendono decisioni il confronto e lo scontro politico sono inevitabili. Ma già allora era chiaro a tutti che da parte del governo non c’era alcun equivoco: la missione Alba era un aiuto contingente, che si dava in un momento d’emergenza, che si sapeva essere indispensabile per il futuro materiale e politico dell’Albania e al contempo nell’interesse dell’Italia. Così andò: riuscimmo a evitare il protrarsi di una vera e propria guerra civile e anche dal punto di vista logistico la missione fu esemplare, non si registrarono né scontri né feriti. Fu un’Italia efficace perché consapevole delle proprie responsabilità nel Mediterraneo, così come avvenuto in seguito, con la missione libanese. Secondo me anche l’operazione Leonte ha salvato e garantito la pace in un’area delicatissima del nostro mare. La differenza è che questa seconda missione deve ancora concludersi.
Il 14 aprile 1997, il giorno dopo il lancio della missione Alba, lei ritorna in Albania. Ma sceglie di atterrare in elicottero a Valona, la capitale del sud in rivolta, e solo dopo sale a Tirana, a colloquio con Sali Berisha. Viste le condizioni del paese, questa sua decisione non destò perplessità militari?
Moltissime perplessità. Ma nonostante gli elicotteri e la logistica per la protezione, la mia non era una spedizione militare, era una visita politica. La visita di un governo che aveva la precisa idea strategica di aiutare l’Albania, e di farlo anche perché questo corrispondeva all’interesse italiano. Certamente nell’aria c’era apprensione. Trovarsi a parlare a Valona, all’aperto, di fronte a una piazza gremita di persone anche armate… Ricordo che quando il segretario dell’ONU Kofi Annan incontrò mia moglie le disse: “Suo marito ha avuto un coraggio da leone”. Ecco, preciso che non fu un gesto di coraggio, si trattò al massimo di incoscienza, ma al servizio della chiara coscienza del momento politico. Io non ho mai incontrato soltanto i leader di una parte. Per me questa regola vale ancora oggi. La scorsa settimana a Tirana ho incontrato il Presidente della Repubblica Ilir Meta, ho incontrato Bashkim Fino e altri esponenti socialisti, e ho incontrato Sali Berisha e altri esponenti dell’opposizione. Il primo ministro Rama era a Bruxelles, ma avrei incontrato comunque sia la sinistra che la destra. Questo perché ritengo fondamentale rispettare la politica interna di un paese. Anzitutto se il tuo fine è la pacificazione. Devo dire che ieri come oggi non tutti gli alleati fanno la stessa cosa.
Qual era il clima politico nel 1997? Con il socialista Fino a Valona e con il democratico Berisha a Tirana vi siete detti cose diverse?
In situazioni così drammatiche non è che si facciano piani politici, si fanno ammonimenti e appelli alla ragionevolezza, si cerca di dare il senso dell’emergenza, di far sentire ai propri interlocutori il fatto che non sono soli, che c’è una comunità internazionale che li guarda, li rispetta, e di cui fanno parte, ci si accorda sugli intenti minimi… Al mio governo in quel frangente interessava un accordo generale nel paese per iniziare la missione Alba. L’obiettivo era costruire un futuro diverso per gli albanesi, su questo obiettivo non potevano esserci diversità nei rapporti con gli esponenti politici. Il senso del dramma era talmente palese, l’evidenza dei fatti chiamò alla responsabilità.
Il tempo, a mio giudizio combinato alla negligenza strategica, ha affievolito la rilevanza dell’Italia in Albania. Cosa pensa degli attuali rapporti bilaterali?
La responsabilità diretta dell’Italia è stata confortata da comportamenti successivi al 1997: investimenti, rapporti politici seri, e devo dire nessun atteggiamento invasivo come altri paesi avrebbero fatto. Quando nell’estate del 1997 ci furono le elezioni politiche io proibii a qualsiasi politico italiano di andare a fare la campagna elettorale in Albania, perché ritenevo non si dovesse interferire nella vita politica del paese. Su questa base di rispetto e di non ingerenza abbiamo creato un rapporto di amicizia e di interessi incrociati molto forti. Con un flusso di investimenti notevoli e un interscambio commerciale di prima importanza. Certo, negli anni l’influenza italiana – anzi l’attenzione, perché la parola “influenza” non mi piace – nei confronti dell’Albania è andata via via allentandosi. Parlo anzitutto di attenzione politica, perché i rapporti economici si sono mantenuti. La settimana scorsa a Tirana ho ribadito che bisogna affrettare il processo di avvicinamento all’Unione: un processo che unisce tutti i paesi dei Balcani Occidentali e che è più grande delle singole relazioni bilaterali. Il dibattito sui confini dell’Europa oggi è semplificato rispetto ai tempi in cui guidavo la Commissione, perché è stata rinviata se non cancellata del tutto l’agenda turca: è un dibattito che si può svolgere in maniera più serena e tranquilla, e che vede nell’allargamento ai Balcani Occidentali il suo sbocco strategico naturale. Il compito dell’Italia è di facilitare il cammino dei suoi partner balcanici verso l’Ue.
Negli ultimi anni la Turchia di Erdoğan ha modificato radicalmente la propria politica estera e anche in Albania si propone come potenza alternativa all’Europa. Mentre lei si trovava a Tirana, da Bruxelles il primo ministro albanese Edi Rama ha dichiarato che se i politici europei rallentano sull’allargamento, Turchia, Russia e Cina sapranno offrire migliori prospettive ai paesi dell’area.
I Balcani possono certamente guardare a est, ma credo che per loro non sia assolutamente conveniente. Buoni rapporti con la Turchia vanno benissimo per tutti, ma che si realizzi un’unione politica turco-albanese mi sembra un po’ nei sogni. Anche i rapporti con la Cina sono importanti e positivi, ma entro certi limiti, non devono arrivare a dividere l’Europa. Le dichiarazioni di Rama sarebbero una notizia se venissero perseguite attivamente. Ma per l’Albania non vedo come realistici scenari non europei, né credo che li vedano i cittadini albanesi. Dopodiché certamente, la Turchia è un grande paese, ha un’influenza enorme in Albania, che esercita anche valorizzando l’aspetto religioso, tecnica che andrebbe usata con molta delicatezza perché la religione intesa come fattore identitario può diventare un elemento divisivo che sfugge di mano. Ma io ritengo l’Albania un paese europeo e penso che gli albanesi si considerino europei, punto e basta. Sugli obiettivi di lungo periodo credo ci sia chiarezza. Il resto sono piccole cose…
A vent’anni di distanza gli eventi si storicizzano. Qual è il ricordo dei leader di allora? Con Fino e Berisha cosa vi siete detti?
Niente, come vent’anni fa abbiamo parlato del futuro. Dell’economia di oggi, dell’espansione della città di Tirana, delle esigenze degli albanesi. Non abbiamo parlato neanche per un minuto della missione Alba. Certo per me è un piacere tornare nel paese e vederne i cambiamenti. Rispetto a vent’anni fa è un altro mondo, e avere contribuito a creare un altro mondo è fonte di soddisfazione. Sono sempre felice di tornare in Albania; ci sono tornato diverse volte, a fare lezioni all’Università, ma anche come semplice turista. Vedere tutti quei giovani studenti fa respirare. Dopodiché sappiamo molto bene che i problemi non mancano. Ma direi che un cambiamento radicale c’è stato ed è visibile.
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