Secondo la Direzione nazionale antimafia si tratta di un'organizzazione che avrebbe ormai fatto il salto di qualità, ritagliandosi in Italia un ruolo di primo piano nel mercato della droga. E' la mafia albanese. Un approfondimento

16/10/2013 -  Matteo Tacconi

Gawar, Berat Dia 2, Country, Zanon I Keq, New Deal 2008, Uomini duri, Shqiptar, Little, Rikos. Sono i nomi di alcune delle tante inchieste, citate nell’ultima relazione annuale della Direzione nazionale antimafia, che nel corso degli ultimi tempi hanno coinvolto cittadini albanesi. Inchieste effettuate in ogni angolo d’Italia: Brescia, Brindisi, Torino, Verbania, Milano, Firenze, Ascoli Piceno, Perugia, Lecce. Inchieste relative a reati legati al traffico e allo spaccio di sostanze stupefacenti.

Si dirà che non è una novità. È del resto risaputo che la malavita albanese tratta droga e che da anni, penetrando progressivamente l’emigrazione, è a sua volta penetrata in tutto il territorio italiano, con particolare intensità nei suoi versanti centrale e settentrionale.

Ma c’è una differenza di non poco conto, in quello che la Direzione nazionale antimafia (Dna) mette in risalto nel documento in questione, che copre il periodo 1 luglio 2011 – 30 giugno 2012. Si evidenzia infatti che la criminalità albanese ha compiuto il salto di qualità, ritagliandosi anche in Italia un ruolo di primo piano nel mercato della droga.

I criminali albanesi non si dedicano più allo spaccio sulle piazze e sulle strade, come avveniva anni addietro. Ormai operano soprattutto come fornitori, esibendo "la consapevolezza di rappresentare una forza criminale in fase di espansione e di ulteriore radicamento", si legge nel rapporto, che rimarca come i gruppi albanesi siano "passati dalla consumazione di reati cosiddetti predatori e da isolate (per quanto consistenti e ben strutturate) iniziative nell’ambito del narcotraffico […] a più stabili strategie criminali, finalizzate al consolidamento dei legami sul territorio e alla evoluzione verso attività delinquenziali sempre più qualificate".

I dati

La relazione messa a punto per l’anno 2012 dalla Direzione centrale dei servizi antidroga (Dcsa), struttura che fa capo al ministero dell’Interno, fotografa implacabilmente, in termini numerici, quest’avanzata. L’anno scorso i cittadini albanesi denunciati sulla base di reati associativi relativi al traffico di droga sono stati 443, con un incremento del 92% rispetto al 2011. La quota complessiva, sul totale dei denunciati di nazionalità straniera, è pari al 41%. La cifra è ancora più alta nel singolo comparto dell’eroina, dove sfonda il tetto del 50%, mentre nel computo totale dei denunciati – si considerano anche i reati non associativi – gli albanesi, con 356 segnalazioni, sono distanti dai tunisini (1008) e dai marocchini (381). Il segno evidente di una rete criminale organizzata, di una strategia di affiliazione e strutturazione.

Il grande affare della coca

Sono però soprattutto le statistiche riguardanti il mercato della cocaina – la presenza albanese è in netta crescita – a stupire, dato che il milieu albanese è storicamente orientato a privilegiare l’eroina, complice la sempre gettonata via balcanica (Afghanistan-Turchia-Balcani-Europa occidentale). La Dcsa indica che sui 4783 totali casi ascritti a stranieri, 1229 coinvolgono albanesi e 223, tra questi, sono sfociati in reati associativi. Conti alla mano, più delle metà dei reati associativi finalizzati al traffico di droga contestati a cittadini albanesi nel 2012 è legato alla cocaina (l’eroina si ferma a un terzo, il resto è frutto del commercio illegale di marijuana).

Da cosa dipende questa nuova prospettiva? Verrebbe da dire che l’accresciuto peso della mala albanese nel settore della coca è un riflesso delle nuove tendenze di mercato, che negli ultimi anni hanno visto i Balcani trasformarsi in un hub internazionale di questa droga, su impulso decisivo dei gruppi serbo-montenegrini. In particolare il cartello fondato da Darko Šarić, a tutt’oggi latitante, la cui consorteria è riuscita a imporsi come broker globale della coca sollevando le organizzazioni storiche, in primo luogo la ‘ndrangheta, dagli oneri di trasporto, stoccaggio e distribuzione. Prelievo della droga in America latina, stoccaggio nella penisola balcanica e successivo smistamento in Italia e nell’Europa occidentale: ecco la filiera.

I gruppi albanesi avrebbero potuto seguire le orme di Šarić – d’altronde la loro versatilità criminale è comprovata, tanto che l’Europol li definisce poly-drug e poly-criminal – o persino prendere il suo posto, dal momento che i serbo-montenegrini, che giunsero a movimentare a Milano quantità impressionanti di coca, hanno subito una dura battuta d’arresto con l’operazione Balkan Warrior. Tuttavia non ci sono verità giudiziarie da affiancare a questa ipotesi, che quindi resta tale.

Più densa di indizi e dunque meno ipotetica, è invece la teoria secondo cui l’Albania starebbe diventando un’area di lavorazione della cocaina. La Dcsa, a questo proposito, annota che "alcune analisi di laboratorio effettuate su cocaina sequestrata a trafficanti albanesi hanno evidenziato tecniche di raffinazione diverse da quelle abitualmente impiegate dai sudamericani", alludendo alla possibilità che i narcotrafficanti albanesi stiano non solo usando il proprio paese come magazzino, ma anche come luogo di raffinazione della cocaina.

Il modus operandi

Sanno conquistarsi nuovi spazi. Sono entrati di prepotenza nel mercato della coca. Aumentano, si ipotizza, il fatturato. I gruppi albanesi sono in forte ascesa e c’è tutta una serie di “virtù”, a monte di questo. Conta un’esperienza criminale rodata, messa a punto già da prima del grande big bang degli anni ’90, quando il disfacimento dello stato prima (1991) e la crisi politico-finanziaria poi (1997) crearono dei buchi legali e ampi margini di manovra per le mafie. Incide – s’è detto – il legame tra la madrepatria e l’emigrazione, che ha una declinazione anche in chiave criminale e che costituisce uno dei punti di forza di un’altra potenza del narcotraffico: la ‘ndrangheta. Pesa inoltre la capacità di allacciare relazioni con altri grandi gruppi criminali, come la stessa ‘ndrangheta o le mafie turche o ancora, quelle post-jugoslave e quelle di origine maghrebina, a cui i trafficanti albanesi vendono all’ingrosso.

Infine, risulta decisivo anche l’aspetto “antropologico”. È che la struttura delle cupole albanesi, solitamente di dimensioni medio-piccole, è fondata sui legami di sangue e sulle relazioni familiari. "La criminalità albanese è un groviglio fatto da tanti, piccoli nuclei. Ognuno – spiega Enzo Ciconte, professore universitario e storico delle mafie, autore di Mafie straniere in Italia. Storia ed evoluzione (Rubbettino 2003) – è formato da “gente del villaggio”, persone legate le une alle altre. Questo vincolo disincentiva il fenomeno del pentitismo". E questo è un altro tratto comune con le cosche calabresi. Muovere battaglia nei confronti dei clan albanesi non è facile. Forze dell’ordine e magistrati hanno una sfida ardua da affrontare.

Quello che manca all’appello

La fotografia sui gruppi criminali albanesi in Italia, tuttavia, presenta delle sfocature notevoli. Mancano cifre sul giro d’affari, innanzitutto. Né la Dna, né la Dcsa, né articoli e saggi sul tema squadernano – o presumono – il possibile fatturato della mala albanese.

Nulla, inoltre, figura a proposito dei clan. Quali sono? Dove si sono rispettivamente radicati? Di quale congregazione mafiosa in patria sono la proiezione? Su questo la Dcsa registra che c’è un problema identificativo rilevante, dato che la legge albanese prevede una procedura con cui, semplicemente recandosi al proprio comune di residenza, si può cambiare l’identità. Il che lascia intendere che le forze dell’ordine ipotizzano che dotarsi di un nuovo nome e di un nuovo cognome è una pratica diffusa, tra i trafficanti.

Tuttavia l’assenza di riferimenti in merito ai clan, come al loro fatturato, potrebbe denotare anche una possibile fatica, persino più marcata di quanto già non lo sia, nel braccare i gruppi malavitosi albanesi. "Gli inquirenti devono ancora venire a capo della transizione che c’è stata a livello organizzativo. Prima i criminali albanesi venivano in Italia e stavano sulla strada. Questo li esponeva. Chi è riuscito a fare i soldi se n’è tornato in Albania. È da lì che gestisce i traffici nel nostro paese, dove sono attivi i suoi rappresentanti. Pesci piccoli, in ogni caso. La cabina di regia è a Tirana e dintorni", suggerisce Enzo Ciconte.

 

Questa pubblicazione è stata prodotta con il contributo dell'Unione Europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto Racconta l'Europa all'Europa


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