Riportare a casa ingegneri, ricercatori, giuristi. Perché contribuiscano alla crescita della loro comunità d'origine. Un tema caro a molti politici, in Albania come altrove, ma spesso connotato da un contorno retorico e da speculazioni demagogiche
Il dibattito sul ritorno dei cervelli emigrati (Brain Gain) si presenta ciclicamente sulla scena pubblica albanese. Questa volta la discussione si è accesa grazie alla stimolante provocazione del pubblicista Ardian Vehbiu il quale, con un articolo sul quotidiano Shekulli intitolato "Kundër retorikës së kthimit" (Contro la retorica del ritorno), ha criticato aspramente il contorno retorico e le speculazioni demagogiche che avvolgono l'argomento "Brain Gain". Le repliche, com'era prevedibile, non sono mancate, anche sotto forma di editoriali.
Con un terzo della popolazione all'estero e un flusso emigratorio persistente, sebbene attualmente contenuto, è normale che l'Albania si ponga questioni sul fenomeno del ritorno dei suoi cervelli. D'altronde lo fanno perfino paesi dell'Ue, come l'Italia, che si lamenta spesso della fuga di cervelli e della necessità di creare le condizioni per un possibile ritorno dei propri scienziati. Ma le discussioni su come risolvere un problema sono una cosa, altra cosa è la retorica con cui si annuncia o si chiede la soluzione di un problema ormai cronico.
Il ritorno dei migranti nei paesi di origine è diventata una vera ossessione globale, specialmente in tempi di crisi. Se ne parla nei paesi di accoglienza, dove qualcuno vede gli immigrati come usurpatori di posti di lavoro, se ne parla nei paesi di origine, dove si svolgono megaprogetti finanziati per il ritorno degli emigrati istruiti. È semplice notare che il ritorno dei migranti costituisce l'ingrediente perfetto per tutte le salse politiche. C'è quasi tutto per preparare un buon piatto attira-consensi. Basta un po' di retorica, un pizzico di amor patrio e qualche articolo patinato sui soliti talenti erranti a cui "ci unisce lo stesso sangue".
Il discorso sul "Brain Gain", da un certo punto di vista, non avrebbe senso se si parlasse dell'immigrazione qualificata, che parte come tale e viene accolta come tale. In altre parole, ad un ingegnere informatico che parte dall'Albania e viene assunto come tale in Canada, non puoi parlare facilmente di ritorno. In un mercato aperto, e per di più in democrazia, l'ingegnere ha scelto di vivere e di costruirsi una vita in un altro Paese diverso da quello natio. È liberissimo di farlo. Ovviamente, non possiamo soffermarci adesso sui motivi personali che l'hanno spinto a fare questo passo. È fondamentalmente ipocrita parlare del ritorno di questi cervelli, magari appellandosi all'amor patrio, senza prima aver creato le condizioni adatte, proprio quelle che hanno probabilmente fatto da spinta alla partenza. In termini di mercato, lo Stato che ha accolto una persona qualificata, senza aver investito nulla per la sua istruzione e la sua salute fino ad una certa età, ha fatto un vero affare; l'altro, invece, rimane con un pugno di mosche in mano.
Insensata appare la gestione dell'altra categoria, ossia di quei migranti che, pur avendo un alto livello di istruzione, svolgono dei lavori di basso profilo e/o sottopagati nei paesi di immigrazione. Questi migranti vengono trattati con indifferenza, ma con dosi massicce di retorica patriottica, anche nei paesi di origine, dove non mancano progetti "di inventario", che sarebbero utili se non concepiti aridamente da qualche ricercatore burocratizzato. I moduli di registrazione, infatti, oscillano tra la freddezza del fisco e l'anonimato del questionario. Manca l'anima, l'essenza della questione, ossia i motivi veri che hanno spinto quella persona a lasciare il proprio Paese. Queste iniziative finiscono inevitabilmente per prendere polvere in qualche cassetto: ovviamente dopo la solita presentazione con slide colorate power point in presenza delle autorità del caso.
È proprio la dimensione personale la grande assente nel dibattito pubblico sul ritorno dei cervelli. Tale assenza va attribuita alla presunta elaborazione del problema effettuata in qualche progettifficio e implementata con tutta probabilità con il solito copia/incolla. Altrimenti, come si fa a progettare il ritorno dei cervelli in termini burocratici, quando questi hanno già buttato le basi della nuova vita nei loro nuovi Paesi? Un ricercatore che ha appena aperto un mutuo per la casa, oppure aspetta un bambino, dopo aver investito sul lavoro e sulla sua rete sociale, come fa a ritornare nel Paese di origine senza scombussolare per la seconda volta i progetti esistenziali? Anche volendolo fortemente, il ritorno si presenta in pratica difficile. Nella miglior delle ipotesi, tali proposte peccano di meccanicismo ingenuo, poiché applicano formule di concezione idraulica a contesti umani piuttosto complessi. Diverso è il discorso retorico, il quale risulta doppiamente efficace, visto che da una parte usa sfacciatamente e strumentalmente un tema di sicuro appeal demagogico, dall'altro nasconde la parte più problematica della medaglia, ossia il "brain drain", la fuga dei cervelli ed i suoi motivi.
Non c'è dubbio che in Albania si sia verificata una certa mitizzazione dei singoli individui che "hanno raggiunto il successo" all'estero. I media albanesi hanno bombardato l'opinione pubblica con una miriade di articoli, interviste, reportage a grappoli, creando personaggi dai contorni mitici, spesso dipinti come pionieri dell'albanesità nel mondo. È vero che agli albanesi si offriva la possibilità di proiettare i propri sogni in persone trasformate adeguatamente in personaggi, in eroi che ce l'hanno fatta in quanto "albanesi di valore", pompando in tal modo l'autostima collettiva ormai a terra, ma è altrettanto vero che si celava loro l'importanza della comunità nella crescita dell'individuo. In altre parole, il successo del fisico o del medico albanese in Danimarca, piuttosto che in America, dipendeva non solo dalla preparazione del professionista, ma anche dalla valorizzazione da parte della comunità ospitante, le cui regole gli hanno offerto in definitiva una chance per emergere.
Nei bar albanesi si elencano senza sosta i professionisti e gli artisti di successo che "ce l'hanno fatta" all'estero, scomodando talvolta la storia recente ed antica ma, finito l'effetto consolatorio del motto "siamo bravi!", o tanto peggio "siamo una razza intelligente!", rimane solo l'amarezza della realtà: pochissimi cervelli hanno fatto ritorno in Albania. Infatti, oltre i progetti promossi dalle solite Ong e finanziati dai soliti fondi, c'è da chiedersi come mai l'Albania non riesce a creare veramente le condizioni per il ritorno dei "suoi" cervelli. Anche se, nell'epoca della globalizzazione, è sempre più difficile parlare di cervelli in termini nazionali. Il chimico albanese finanziato dai laboratori di un certo Paese, e per questo pluripremiato, anche se facesse ritorno nel suo Paese di origine non sarebbe più un cervello esclusivamente albanese, perché i risultati del suo lavoro dipendono da molti fattori, a cominciare dal network con cui ha lavorato. E qui arriviamo al punto dolente del problema, perché il ritorno ha bisogno di un certo contesto per verificarsi. Se fossimo sinceri fino in fondo, dovremmo accettare che l'appello all'amor di Patria ha un certo peso, ma sicuramente non decisivo. Un chimico albanese in odor di Nobel, ad esempio, non tornerebbe in Albania se questa non gli mettesse a disposizione un laboratorio decente, almeno come quello che aveva prima. Altrimenti, finite le cerimonie con bandiere, inni, telecamere e strette di mano istituzionali, si incamminerebbe verso una morte professionale tanto sicura quanto annunciata.
Ogni ritorno è anche una partenza. Il ritorno, per certi versi, costituisce una doppia migrazione. Voglio dire che la reintegrazione nel proprio Paese di origine, dopo anni di assenza, non è una strada facile. Ciò si verifica anche per motivi oggettivi. Intanto, il posto presso qualsiasi ente o organismo va conquistato sul terreno; è poco probabile che il tappetino rosso verso il nuovo lavoro sia cosparso di rose e fiori. Poi, la mediocrità aborre il vuoto come lo spazio, almeno così insegna l'arte dello sgomitare. Attualmente, chi ha conseguito dei titoli all'estero, deve passare sotto le forche caudine della burocrazia albanese per il riconoscimento. Tutto questo è comprensibile a livello umano e formale, tant'è vero che esiste anche il mezzo ritorno, ossia cervelli che rientrano in Albania avendo già in tasca un passaporto occidentale o un permesso di soggiorno. Si tratta di una possibile "uscita di emergenza", di "una valvola di sicurezza", in caso di fallimento del rientro, assolutamente legittima e giustificabile, ma che dimostra quanto sia precaria e delicata la decisione del rientro. Per non prendere in esame la variabile della famiglia, il cui peso è indiscutibile per chi è cresciuto nella cultura albanese.
Il discorso sul ritorno dei cervelli sarebbe molto più semplice se si presentasse senza l'involucro fosforescente della retorica. Intanto bisogna intendersi sulla parola "cervelli". Secondo me anche questi, per quanto geniali ed intuitivi, non saprebbero riconoscerne le caratteristiche in modo inequivocabile. C'è l'ingegnere che progetta per la Fiat, ma c'è anche l'ingegnere che fa il meccanico a Benevento; c'è il fisico che si occupa dei fasci di particelle per conto di un consorzio europeo, ma c'è anche il fisico che esercita le sue conoscenze presso una piscina pubblica; c'è il medico che aspira a diventare aiuto primario, ma c'è anche il medico che aiuta l'istruttore di palestra nella lotta alla ciccia occidentale; c'è il professore che insegna alle superiori, ma c'è anche il professore che rilega libri in tipografia. Non sempre il lavoro esercitato esprime realmente la capacità di una persona. O forse abbiamo dimenticato che Einstein lavorava nell'anonimato dell'ufficio brevetti? Per non parlare, ovviamente, del bacio della fortuna, che influisce non poco sul lavoro. Comunque sia, le varie categorie dei cervelli, si ritrovano alla fine di fronte ai motivi dell'eventuale ritorno. Per fare il biglietto verso il paese natio devono trovare condizioni migliori; e non è detto che le condizioni siano solo di carattere economico. I soldi, come si dice ormai ovunque, sono importanti, ma non tutto.
Lo Stato albanese a quale categoria di cervelli dovrebbe dare precedenza per un eventuale ritorno? All'Albania di oggi servono più ingegneri di aeronautica spaziale, oppure economisti? Esperti di finanza o commercialisti? Chimici o matematici? Giuristi o letterati? Una scelta veramente difficile, anche perché non tutto ciò che si impara o si applica in occidente va bene per la realtà albanese. Esempio? Un esperto di aeronautica spaziale, oppure un esperto commercialista del sistema fiscale italiano, difficilmente si ritroverebbe nella realtà albanese, considerato che la sua professione si può esercitare al meglio in un altro contesto socio economico.
Eppure un modo per valorizzare i cervelli albanesi ci deve essere. Innanzi tutto creando le condizioni per non farli scappare dal Paese, dando dignità e prestigio sociale al loro lavoro intellettuale. Inoltre, si potrebbe promuovere il loro ritorno "virtuale", che non è meno proficuo del ritorno "fisico". Molti ricercatori albanesi nel mondo stanno già lavorando, su base personale e volontaria, alla creazione di reti di collaborazione con vari enti ed organismi albanesi. È un'operazione che viene naturale a qualsiasi emigrato: appena possibile, tentano istintivamente di stabilire un contatto con il proprio Paese nell'ambito lavorativo. Lo fa il pizzaiolo che spinge il proprietario ad aprire una pizzeria a Valona, lo fa l'operaio che suggerisce all'imprenditore della fabbrica di costruire una filiale a Scutari, lo fa il ricercatore che suggerisce al proprio dipartimento di realizzare un progetto con l'Università di Tirana. La classe dirigente albanese ha solo il compito di favorire la formazione di una cultura della meritocrazia e di tenere le porte aperte per tutti coloro che possono dare un contributo reale alla comunità. Una società che premia il merito è gradita a tutti, specialmente ai veri cervelli.
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