Nonostante le incongruenze e le incertezze relative all’accordo siglato tra Roma e Tirana per l’accoglienza dei migranti in suolo albanese, e in attesa del giudizio della Corte europea, a Gjadër e Shëngjin i lavori per i due centri sono già iniziati. Siamo andati a vedere come procedono
È la Domenica della Palme quando arriviamo a Gjadër, una piccola località a 80 chilometri a nord di Tirana, dove i governi di Italia ed Albania stanno costruendo un centro di accoglienza per migranti. Un’unica e stretta via raccoglie la vita quotidiana in paese, fiancheggiata da due bar, un negozio di alimentari e un centro culturale cattolico. Quando arriviamo, la stradina è gremita da decine di persone, venute a prendere parte alla processione e alla cerimonia religiosa.
È però un evento raro. Come tante altre città dell’Albania rurale, Gjadër non sfugge alla duplice sfida che rappresentano l’agricoltura in declino e l’emigrazione di massa, prevalentemente verso l’Italia. La mancanza di opportunità lavorative, l'acqua non potabile e spesso persino l'assenza di energia elettrica sono – secondo quanto ci riferiscono i residenti – i tratti che più caratterizzano la vita in paese.
“Qui sono rimasti solo gli anziani. Se ci fossero ancora i giovani, [i politici] ci penserebbero due volte prima di prendere iniziative di questo genere”, ci dice con amarezza Mark, un signore sulla cinquantina mentre osserva il corteo.
Quello a cui il residente di Gjadër fa riferimento è l’accordo italo-albanese sottoscritto dai due capi di governo il 6 novembre 2023 scorso, un “Protocollo per il rafforzamento della collaborazione in materia migratoria", ratificato dai rispettivi Parlamenti lo scorso febbraio e che prevede la costruzione, in Albania, di due strutture, destinate ad ospitare parte dei migranti salvati nel Mediterraneo dalle autorità italiane per il periodo necessario alla valutazione delle loro richieste di asilo.
Un centro di prima accoglienza sarà costruito nel porto di Shëngjin, mentre il vero e proprio Centro di permanenza per rimpatri (Cpr) sorgerà qui a Gjadër, in una vecchia base aerea dismessa. “Saremo rimasti in 7mila qui, e loro vogliono portare altre 3mila persone dall’Italia. Dove li mettono, lo sanno solo loro – continua Mark con disappunto – qui non è passato nessuno a parlare con noi, neanche i deputati che abbiamo eletto”.
Nel momento in cui gli parliamo, i lavori sono appena iniziati a meno di un chilometro di distanza. Mark ne è al corrente, così come un suo amico, che preferisce mantenere l’anonimato e lamenta in un italiano perfetto: “Qui i politici non si vedono mai, durante le campagne elettorali non vengono nemmeno a chiedere voti, ma si fanno vedere i gruppi criminali che li rappresentano. E poi fanno quello che vogliono”.
Una questione di amicizia?
Il sostegno reciproco all’accordo italo-albanese è stato enfatizzato da Giorgia Meloni lo scorso novembre, quando la presidente del Consiglio italiana ha definito il testo "un esempio e un modello da seguire", invitando alla collaborazione per la gestione dell’emigrazione anche i paesi che non fanno ancora parte dell’Unione Europea.
Con un'apertura altrettanto calorosa, il Primo ministro albanese Edi Rama ha affermato che “quando l'Italia chiama, l'Albania risponde”. Pur senza entrare nel merito delle politiche europee sulla gestione dei flussi migratori, Rama ha chiarito che l'accordo non risolve interamente il problema, ma “quando la geografia diventa una maledizione”, l'Albania è pronta a offrire il proprio contributo, un’opportunità – ha detto – per ricambiare l'accoglienza italiana negli anni Novanta.
Nel dettaglio, il Protocollo (che ha una validità di cinque anni, poi rinnovabili per altri cinque) prevede che le due strutture in costruzione a Shëngjin e Gjadër avranno una capienza massima di 3mila persone e serviranno a valutare le domande di asilo dei residenti secondo una procedura accelerata di 28 giorni al massimo, permettendo il transito di 36mila migranti all’anno sul suolo albanese. L’operazione risponde alla promessa elettorale di Meloni di ridurre gli sbarchi di migranti in Italia, che nel 2023 ha visto arrivare oltre 150mila persone.
“L’amicizia va dimostrata nel momento del bisogno”, ci dice il deputato albanese Denis Deliu, membro del partito socialista (Ps), al potere a Tirana. Seduto in un caffè della capitale albanese, Deliu spiega che l’accordo con l’Italia “non comporta alcune spese per l’Albania”.
La repubblica balcanica ha concesso a Roma l’uso gratuito di due terreni – uno a Gjadër e uno a Shëngjin – che saranno da considerarsi territorio italiano, come avviene per le ambasciate straniere. Il costo inizialmente stimato per il governo di Roma è di circa 650 milioni di euro per i cinque anni di validità del protocollo e la cifra comprende la costruzione e la gestione dei centri, la sorveglianza esterna affidata alle autorità albanesi, così come i costi per il personale e il trasporto da e verso l’Italia.
Una recente puntata di Report , che ha suscitato l’ira del governo albanese e trasmessa successivamente alla pubblicazione del bando per la costruzione delle strutture emesso dal Ministero dell’Interno italiano, sostiene che la cifra sarebbe già salita. Inizialmente stimati a 30 milioni, i costi di gestione delle strutture si sarebbero ad esempio già innalzati a 39 milioni, secondo la stessa inchiesta. Il budget rimanente, secondo elaborazioni di Openpolis a partire da una relazione tecnica , finanzierà altri aspetti dell'operazione, inclusi 252 milioni destinati alle trasferte di funzionari, una spesa che sarebbe peraltro stata evitabile se i centri fossero stati costruiti in Italia (a questi vanno aggiunti 95 milioni solo per il noleggio delle navi che trasporteranno i migranti in Italia, indipendentemente dall'esito delle loro richieste di asilo).
Le autorità albanesi, a partire dallo stesso Edi Rama, hanno regolarmente smentito qualsiasi vantaggio economico dalla partecipazione all’accordo con l’Italia. Tuttavia, durante il processo di conversione in legge del protocollo sono emersi nuovi elementi riguardo alla costruzione e gestione delle strutture.
In particolare, all’Albania sarà affidata la gestione della sicurezza, sotto la supervisione della Polizia locale. Sono inoltre previsti lavori infrastrutturali nell'area designata per i due centri, con un investimento complessivo di 100 milioni di euro nell'arco di cinque anni. In generale, i due centri saranno di proprietà albanese e concessi in uso per la durata dell’accordo, ovvero per un massimo di dieci anni.
Quella relativa al budget totale non è l’unica incongruenza che incombe sul progetto. Il numero complessivo di migranti che saranno trasportati in Albania è altrettanto poco chiaro. Il bando del Ministero dell'Interno prevede infatti una capienza di 1.024 persone, per un massimo di 11.000 persone all'anno, anche in caso di gestione delle domande di asilo entro i 28 giorni. Lo stesso testo indica inoltre una cifra di 34 milioni di euro per la gestione dei migranti e, considerando che la spesa giornaliera per una persona si aggira intorno ai 33 euro, sembra che il Viminale preveda di ospitare al massimo 2.822 migranti all'anno.
Un ultimo punto problematico, infine, riguarda l’impresa italiana a cui è stata assegnata la gestione dei due futuri centri. Si tratta di “Medihospes”, una cooperativa nota in passato con il nome di “Senis Hospes” e finita nel 2015 al centro di alcune inchieste giornalistiche per via dei suoi legami con La Cascina, una società commissariata per infiltrazione mafiosa.
"Il ministro Piantedosi spieghi perché i suoi uffici hanno assegnato la gestione di un centro per migranti in Albania per 151 milioni di euro senza gara e per lo più a una società il cui presidente del consiglio d'amministrazione, Camillo Aceto, è stato amministratore delegato della Cascina, cooperativa commissariata per infiltrazioni mafiose nell'inchiesta della procura di Roma su 'Mafia Capitale'”, ha dichiarato a inizio maggio il deputato di AVS Angelo Bonelli.
Le critiche al progetto
Dopo essere stato sottoscritto nel novembre 2023 e approvato dai rispettivi parlamenti nel febbraio scorso (in entrambi i casi senza dibattito), l'accordo italo-albanese ha recentemente superato anche il vaglio della Corte costituzionale albanese, a cui aveva fatto appello un gruppo di deputati dell’opposizione.
Cinque giudici su nove hanno stabilito che l’intesa per la realizzazione dei centri di accoglienza dei migranti in Albania è "conforme" alla costituzione albanese. Secondo la Corte, l'accordo non implica modifiche del territorio nazionale né all'integrità territoriale della Repubblica d’Albania. Inoltre, si specifica che nelle aree coinvolte dall'accordo migratorio varrà la legge albanese insieme a quella italiana (in apparente contrasto con quanto detto dal Protocollo, che parla di sola giurisdizione italiana). Insomma, nonostante la sentenza abbia aperto la strada all'adozione dell’accordo, non ha dissipato i dubbi sulla legalità dell’iniziativa.
Secondo Dorian Matlija, direttore del Centro "Res Publica" a Tirana, l'accordo comporta un abuso del principio di extraterritorialità, solitamente applicato a contesti circoscritti come le rappresentanze diplomatiche, "abitate” da funzionari di stato. Al contrario, qui si tratta di centri di accoglienza, o detenzione, dove si presuppone maggiore il rischio di incidenti e reati.
La sentenza della Corte Costituzionale ha confermato l’accordo, ma ha evidenziato che saranno applicate entrambe le giurisdizioni, anche se nel diritto solo una può prevalere. Di fatto, Italia e Albania hanno legislazioni diverse in materia di diritto civile, penale, lavoro e famiglia.
Matlija avverte che eventuali indagini o restrizioni sull'accesso alla giustizia e ai tribunali, quindi non solo quelle legate al diritto d'asilo, potrebbero facilmente comportare violazioni dei diritti umani. E in caso di inadempienze, sarà l’Albania a rispondere davanti a istituzioni e corti internazionali.
Molte incertezze gravano anche sulla permanenza dei migranti in Albania, soprattutto in caso di rifiuto del diritto d'asilo e conseguente rimpatrio nei loro paesi d'origine. Diversi esperti albanesi temono che, in caso di ritardi o dispute sull'accordo, i migranti potrebbero rimanere più a lungo nel paese o tentare di fuggire dai centri di accoglienza, creando problemi di gestione in un contesto peraltro ancora permeato dall'attività delle organizzazioni criminali dedite al traffico di esseri umani.
Un gruppo di organizzazioni della società civile albanese ha firmato una petizione contro l'accordo e ha esortato le autorità a considerare il complesso problema dell'immigrazione nel rispetto dei diritti umani e degli obblighi internazionali riguardanti la protezione delle persone in difficoltà.
Preoccupazioni riprese anche da Dunja Mijatović, Commissaria per i diritti umani del Consiglio d'Europa, secondo cui "le misure proposte nel protocollo aumentano in modo significativo il rischio di esporre i rifugiati, i richiedenti asilo e gli immigrati a violazioni dei diritti umani. Il trasferimento della responsabilità oltre i confini da parte di alcuni Stati incoraggia altri Stati a comportarsi allo stesso modo, rischiando di creare un effetto domino che minerebbe il sistema europeo e globale di protezione internazionale".
A Shëngjin
“Shëngjin non è il posto adatto per un progetto del genere. Noi viviamo di turismo durante i mesi estivi. Questo centro può creare problemi”, afferma Fabio (38 anni), che è tornato a vivere nella sua Shëngjin dopo più di 15 anni in Italia. “Sono stato anch’io straniero, ma ho visto cos’è diventata Lampedusa. Non voglio che succeda la stessa cosa qui”, prosegue questo impiegato di una municipalizzata locale.
Sander Marashi, direttore del porto di Shëngjin, si dice tuttavia fiducioso riguardo alla piena continuità delle attività sia portuali che turistiche, nonostante l’arrivo dei migranti. “Il porto di Shëngjin – dice Marashi – è una società privata e ha come prerogativa il trasporto di merci”. Con i 4.000 metri quadrati gentilmente concessi alla parte italiana, il direttore ritiene il suo compito concluso: nessun danno, nessun beneficio. Tutto il resto è una questione politica.
Anche alla sede del comune di Lezhë, sotto la cui competenza ricadono gli insediamenti di Shëngjin e Gjadër, il vicesindaco socialista Elson Frroku assicura che i centri per migranti non avranno alcun impatto negativo. “La cittadinanza non se ne accorgerà nemmeno. L’unica cosa che ci aspettiamo è qualche mezzo di trasporto in più sulle nostre strade”, afferma Frroku, che aggiunge: “Il nostro comune ha inoltre già esperienza in materia, con l’accoglienza dei rifugiati afghani”.
A Shëngjin il governo albanese ha in effetti già messo in pratica un accordo simile. Nel 2021, dopo il ritorno al potere dei talebani, l’Albania ha accettato di accogliere – su richiesta degli Stati Uniti – circa 3mila afghani in fuga da Kabul. Centinaia di loro sono ancora in un resort in attesa di ottenere il visto per gli Stati Uniti.
“Prima degli afghani, sono arrivati i dissidenti iraniani e prima ancora gli uiguri… L’Albania non ha una politica estera di lungo termine. Tutto è deciso dal Primo ministro e il suo obiettivo adesso è mostrare che l’Albania è un partner affidabile e che merita di accedere all’Unione europea”, spiega Ben Andoni, giornalista e analista politico a Tirana.
A Shëngjin però una conseguenza concreta c’è già stata. L’apertura del centro comporterà il trasferimento di una cinquantina di pescatori e delle loro navi dal porto di Shëngjin a quello di Durazzo, 70 chilometri più a sud. “Se davvero ci sposteranno noi protesteremo. La mia famiglia vive qui. Durazzo è troppo lontana”, lamenta un giovane pescatore che preferisce rimanere anonimo.
La Corte europea
Sull’accordo con l’Italia pende però il giudizio della Corte di giustizia europea, che deve esprimersi sulla validità del cosiddetto «Decreto Cutro», introdotto dal governo Meloni a fine 2023 e su cui si basa l’accordo italo-albanese.
Secondo la nuova normativa, le autorità italiane possono trattenere un richiedente asilo fino a quattro settimane a meno che questo non versi una cauzione di 5.000 euro. Il protocollo italo-albanese esclude che i richiedenti asilo possano muoversi in libertà sul territorio albanese, per cui se la Corte dovesse considerare la normativa italiana non in linea con quella europea, l’intero accordo potrebbe saltare. Nonostante questo rischio, il governo italiano ha deciso di proseguire con il progetto e a fine marzo i lavori sono iniziati nel nord dell’Albania.
“L'accordo si fonda sul principio di detenzione degli immigrati durante la valutazione delle loro richieste di asilo, un concetto considerato inammissibile secondo il diritto europeo”, ci dice a Tirana l'attivista Arilda Lleshi. Per coloro che come lei si oppongono all'accordo in Albania, non si tratta di schierarsi politicamente né di essere a favore o contro l'immigrazione. Le loro preoccupazioni, ci spiega, riguardano le possibili ripercussioni sul territorio e sul turismo locale da un lato e, dall'altro, la questione dei diritti umani per coloro che verranno dirottati in Albania senza il proprio consenso, perdendo la propria libertà.
“Con la complicazione derivante dalla legislazione albanese, che rende quasi impossibile l'organizzazione di un referendum, ci troviamo ora a chiederci quali siano le vie per opporci a questo accordo”, conclude Lleshi.
Tuttavia, anche se la Corte europea dovesse esprimersi positivamente, è poco credibile che le richieste di asilo siano trattate entro 28 giorni. Secondo quanto sostenuto da Meloni, infatti, l'aspettativa di accoglienza dei migranti in Albania è di 3mila persone al mese, ma solo se le richieste verranno processate con la procedura accelerata, entro 28 giorni, applicando le norme relative alla cosiddetta procedura di frontiera, a cui il centro di accoglienza albanese è equiparato.
Tuttavia secondo diverse organizzazioni non governative italiane, i tempi di attesa per ricevere una risposta sono solitamente di circa due anni e mezzo, di cui due solo per la prima audizione e sei mesi per la valutazione della pratica.
Ritorno a Gjadër
Di ritorno a Gjadër, una fila di bulldozer percorre lentamente la stretta strada che porta al piccolo centro abitato. I mezzi pesanti oltrepassano il cimitero cattolico e scompaiono dietro ad un cancello arrugginito, che segna l’ingresso della vecchia base aerea, un’area militare abbandonata nascosta tra gli alberi sulla riva occidentale del fiume Drin.
Luigj, 62 anni, guarda con preoccupazione al via vai dei bulldozer a due passi da casa sua. “Nel 1978 il governo ha demolito la nostra casa per costruire la base aerea. Ci hanno dato un indennizzo, ma non sufficiente a ricostruire l’abitazione a due piani che avevamo”, afferma questo pastore, che ora vive in una piccola casa ad un piano con la moglie e il figlio Xhulio. Gli altri due figli sono emigrati in Italia. “È un peccato dover lasciare il proprio paese”, prosegue Luigj, con la faccia arrossata dal sole sotto al cappellino di cotone, “spero solo che faranno attenzione quando trasporteranno i migranti, perché la strada è stretta e le mie capre e pecore pascolano proprio qui vicino”.
*Ultimo aggiornamento 23 maggio 2024
Questa pubblicazione è stata prodotta nell'ambito della Collaborative and Investigative Journalism Initiative (CIJI ), un progetto cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina progetto
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