Anniversari, manifestazioni, proteste. Lo scontro tra opposizione e maggioranza in Albania si infiamma, ma lascia irrisolte molte domande sul carattere profondo del processo democratico. Un commento
Stando alla vulgata storica vigente nell’Albania democratica, l’8 dicembre 1990, per la prima volta, gli studenti di Tirana scesero in piazza contro la dittatura comunista. L’esito politico di quelle proteste furono il multipartitismo, ovvero la nascita del Partito Democratico (PD), e l’affermazione definitiva di Sali Berisha, leader indiscusso della “destra” albanese. Nel venticinquesimo anniversario di questa data simbolo, nella capitale albanese è andata in scena una singolare rievocazione storica: a fronteggiarsi, ancora una volta, “i democratici” e “il regime”.
Tirana, 8 dicembre 2015. Siamo di fronte al Palazzo del Governo, lungo il noto boulevard di costruzione fascista, di parate comuniste e di prove di democrazia. Il PD – da due anni all’opposizione – e il suo segretario Lulzim Basha – delfino berishano, ex sindaco della capitale – hanno deciso di sfruttare la “Giornata della Gioventù” per dare vita a un’imponente manifestazione contro la corruzione dell’”esecutivo Rama-Meta”.
Facendo frullato degli strumenti costituzionali, il segretario del PD definisce la protesta da lui organizzata “un referendum” contro il governo socialista, ne chiede le dimissioni, e propone un esecutivo di transizione in vista di nuove elezioni. In caso contrario, minaccia, il PD darà vita a una “protesta permanente”. Alla luce della debacle registrata dalle opposizioni allo scorso turno amministrativo, questi appelli suonano quantomeno bizzarri; ma si sa, ogni coreografia ha bisogno della sua buona dose di fantasia.
Coreografie democratiche
La geografia cromatica è favorevole alla rappresentazione del PD. Rama è al governo grazie alla ritrovata unità a sinistra con il Movimento socialista per l'integrazione (LSI) di Ilir Meta. Poco importa che dal 2009 al 2013 i deputati di Meta siano stati in maggioranza con Berisha, oggi la situazione è capovolta, e nel Palazzo ci sono loro, ben riconoscibili: “i rossi”. Così, mentre Basha, dal palco, termina il suo comizio, alcuni manifestanti “blu” cominciano un fitto lancio di uova, fumogeni, e vernici contro l’odiato edificio del potere. La coreografia anni Novanta è alquanto suggestiva: come venticinque anni fa, la folla democratica invoca la fine della “tirannia del crimine”; il pratino inglese con cui Rama ha rimpiazzato le inferriate dell’era Berisha è violato dai manifestanti, effigi cartacee della “nomenklatura” vengono bruciate, la celebre installazione di Parreno con cui, l’estate passata, Edi accolse Angela è fatta bersaglio e danneggiata. “Vandali”, tuonerà il premier dall’alto del suo profilo facebook, chissà, forse rivalutando il ruolo di musei e gallerie d’arte.
Scenografie socialiste
Ma gli sceneggiatori della fiction democratica non si accontentano: vogliono un simbolo che renda ancor più evidente quel sottile confine tra “noi” e “loro”. Al termine della performance davanti al “Museo del governo”, l’ira del popolo viene dunque dirottata su un secondo obiettivo: il Bunker. Sì, perché nell’ambito di un progetto di riapertura dei tunnel del comunismo, nei pressi del Ministero dell’Interno, in una zona in fase di riqualificazione urbana, è stato di recente edificato un bunker-citazione, a mo’ d’entrata nel percorso sotterraneo. Inneggiando alla libertà, i manifestanti prima lo distruggono e poi gli danno fuoco.
Che Rama abbia costruito le sue fortune sulla reinterpretazione dei lasciti architettonici del regime è ormai noto anche al di fuori dell’Albania (si pensi alle celebri “case colorate” del primo mandato da sindaco o al più recente “Bunk’Art”). Ma soltanto oggi, dopo un quindicennio di art-politik, le trovate di quest’artista prestato alla politica sono riuscite nella paradossale impresa di fornire uno scenario di senso ai suoi oppositori rimasti senza argomenti. Manchevole di proposte politiche, per celebrare il giorno della democrazia conquistata l’attuale destra albanese non ha trovato di meglio che inventare contraltari d’abbattere, prendendosela con costruzioni che possono piacere o meno, che possono essere esteticamente opinabili, ma che nulla hanno a che fare con la passata dittatura, in Albania condannata da tutti.
A quando la politica? A quando la democrazia?
Privi di culture politiche di riferimento, identicamente appiattiti sul paradigma neoliberista, supini o ipocriti nei confronti degli internazionali, efferati o collusi nel rapportarsi tra di loro, PS, LSI e PD non sono, ad oggi, partiti europei. Niente di nuovo sotto al sole – in Albania come altrove la democrazia è un esperimento lungo e mai finito – ma in questo lento processo la qualità della diatriba politica non è un fattore secondario, proprio perché è in Europa che i viola, i rossi e i blu raccontano di stare andando.
Nonostante le pittoresche coreografie di fine anno, i veri problemi della democrazia shqiptare si agitano nel back stage del ballo in maschera inscenato da una politica di basso livello, lieta di distrarre le folle dalla propria mediocrità.
Quello che colpisce gli osservatori esterni è, ad esempio, l’irriducibile carattere autoritario dei leader albanesi (limitatamente a questo punto, nonostante la diversità del momento storico, Rama è in perfetta continuità con il passato); quello che preoccupa gli internazionali è la continuità profonda del potere al potere (un fenomeno splendidamente incarnato da Ilir Meta, che governa chiunque governi radicando elezione dopo elezione il proprio sistema clientelare). Quello che drammaticamente manca al dibattito nazionale è un confronto vivo e autentico nel merito dei problemi: un’opinione pubblica autonoma e non manipolabile, che è cosa ben diversa dalle truppe cammellate dei partiti-fazione.
Purtroppo, a un quarto di secolo dalla nascita della democrazia albanese, l’incendio di un bunker fake sintetizza in un’immagine surreale tutti i limiti della sua dialettica interna, nata e cresciuta per imitazione (verrebbe da dire: per necessità). Un gioco delle parti talmente vuoto da spingere l’opposizione di turno a rinunciare alle sue ragioni potenziali per bruciare fantasie di cartapesta.
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