Monumento ai caduti nel villaggio di Vank (Foto Simone Zoppellaro)

Monumento ai caduti nel villaggio di Vank (Foto Simone Zoppellaro)

Ai confini dell'Europa, il Nagorno Karabakh è teatro da oltre venti anni di un conflitto dimenticato. Reportage

06/11/2015 -  Simone Zoppellaro Stepanakert

Da Yerevan, si arriva in Nagorno Karabakh in sei ore, tornante dopo tornante: un viaggio capace di mettere alla prova anche chi, come me, non ha mai sofferto di mal d’auto. Fino alla cittadina di Goris è la stessa strada che porta in Iran e che ho fatto più volte. Ma qui, anziché proseguire verso sud, a un bivio si svolta a sinistra. Il confine non è lontano: un piccolo posto di blocco sul quale si levano due bandiere quasi identiche, l’armena e quella di questa piccola repubblica de facto, non riconosciuta da alcun stato al mondo. A distinguerle, un motivo geometrico che ricorda i nodi dei tappeti tipici di questa regione, e che ritaglia una sorta di triangolo ai margini del tricolore armeno.

Dopo il confine, chilometri che si snodano in un paesaggio montuoso, particolarmente suggestivo, fatto di valli e declivi. Pochissimi i centri abitati che si incontrano prima di Shushi/Şuşa; più numerose le mandrie e i greggi. Poche anche le macchine che si incrociano. Sorprende, invece, l’alto numero di camion cisterna per il trasporto di carburanti: in fila, uno dopo l’altro, a breve distanza per chilometri. Un segno inquietante, nonostante il paesaggio idilliaco e il senso di pace diffuso: perché qui, volenti o nolenti, c’è una guerra da nutrire.

Shushi/Şuşa

Ben più visibili le ferite che si scorgono appena arrivati a Shushi/Şuşa. Nonostante gli sforzi del governo, la cittadina non si è più ripresa dal conflitto. Benché sia solo a pochi chilometri da Stepanakert, i prezzi delle case – come mi spiega un ragazzo di qui – sono molto più bassi: arrivano addirittura a un decimo. Facile capire il perché: molti gli edifici abbandonati, e ancor più numerosi quelli che portano segni di proiettili o esplosioni. Tutto qui odora di macerie. Le nuove costruzioni, molto curate – un ufficio del turismo, il mercato coperto e un albergo di proprietà di un armeno libanese – non fanno che mettere in risalto ancor più la desolazione circostante, a causa del contrasto stridente. I bambini giocano alla guerra fra gli edifici sventrati dalle bombe, mentre gli adulti – in molti casi profughi che hanno lasciato l’Azerbaijan negli anni novanta – trasudano disperazione.

Le due bandiere al confine della repubblica de facto (Foto Simone Zoppellaro)

Le due bandiere al confine della repubblica de facto (Foto Simone Zoppellaro)

Tanti anche i monumenti che raccontano il passato multietnico della città, ormai perduto, e la storia di questo conflitto: due moschee e una scuola coranica, alcune case di chiara impronta islamica, oltre a un teatro distrutto. Come in tutto il Caucaso, anche qui per secoli musulmani e cristiani avevano vissuto fianco a fianco. Una convivenza non sempre facile, ma che era proseguita ininterrotta ancora fino alla fine dell’epoca sovietica. Ora tutto questo non sembra più possibile, nonostante ancora oggi, ad esempio, armeni e azeri convivano pacificamente in alcuni villaggi della Georgia o in Iran. Il germe del nazionalismo, che era stato all’origine del genocidio armeno del 1915, ha conosciuto anche qui un’esplosione tarda e terribile.

La cittadina di Shushi/ Şuşa – situata in un’altura da cui le truppe azere bombardavano notte e giorno gli armeni a Stepanakert – fu al centro della battaglia più importante della guerra del Nagorno-Karabakh. La sua presa rappresentò una svolta del conflitto, e tutti qui ancora la ricordano con emozione. Prima dell’entrata nella città, provenendo dalla capitale, un carroarmato T-72 – usato dagli armeni come monumento per la vittoria – è lì a ricordarlo.

Stepanakert

A 10 chilometri da Shushi è Stepanakert, capitale di questa repubblica de facto. Una cittadina di poco più di 50.000 abitanti, vi hanno sede il governo e il parlamento. Qui tutti hanno combattuto, tutti hanno parenti o amici che hanno perso la vita. Anche nei giorni della mia visita, un loro concittadino è caduto in questo conflitto senza fine. Sotto l’apparenza di normalità, scorrono vene profonde di dolore, per quanto non subito percettibili. Eppure, in superficie, l’atmosfera di provincia è quella che si respira in ogni altra parte del mondo.

Una strada di Stepanakert (Foto Simone Zoppellaro)

Una strada di Stepanakert (Foto Simone Zoppellaro)

In piazza della Repubblica, che costituisce il cuore di questa cittadina, fra una macchina e l’altra si può sentire il frinire dei grilli anche in pieno giorno. Gli sforzi per tirare a lucido la città – anch’essa distrutta dalla guerra – sono stati notevoli, e il risultato è tutt’altro che sgradevole. Ci sono un parco giochi, un paio di ottimi ristoranti, un pub con birra artigianale, un hotel, gli uffici governativi, una fontana, e persino un piccolo ufficio turistico. Nessun segno della guerra, in centro, neppure un manifesto di propaganda contro l’Azerbaijan: niente toni accesi, solo tanta voglia di vivere.

Morte e vita

Ma la guerra, purtroppo, non è lontana, e bastano pochi minuti di macchina per accorgersene. E allora ritorna l’incubo: la strada che dalla capitale porta alla cittadina di Martakert è uno spettacolo impressionante. La morte e la vita corrono insieme su questa via, a due passi dalla terra di nessuno dove i due eserciti si fronteggiano da più di vent’anni, nell’indifferenza di un’Europa a cui nonostante tutto, da queste parti, si guarda con grande simpatia. Perché il Caucaso è Europa, ne è forse la sua frontiera più estrema e dolente; in tutta onestà, è difficile definirlo altrimenti.

Fra i vari villaggi e città rase al suolo che si vedono passando c’è anche Agdam, definita a volte la Hiroshima del Caucaso. Vedo da lontano, senza poter avvicinarmi per la presenza di un checkpoint militare, i due minareti della moschea cittadina, miracolosamente sopravvissuta alla distruzione sistematica di ogni edificio. Una pagina dolorosa non solo per le vittime, ma anche per le migliaia di profughi azeri costretti a lasciare per sempre la città. Ma non c’è solo Agdam: il paesaggio di edifici rasi al suolo è una costante invariabile di questo confine. Fughe, distruzioni e lutti ci furono da entrambe le parti. Si passa così anche per Maragha , che fu teatro di una delle pagine più dolorose di questa guerra. In questo caso le vittime furono gli armeni, massacrati nel 1992.

Eppure, anche qui, la volontà di vivere insiste, cerca di farsi avanti: è commovente vedere, a due passi dal fronte, nuovi paesi nascere abbarbicati a queste rovine.


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