Un incontro con un uomo azero di 34 anni affetto da un disturbo mentale. La sua esperienza, la sua quotidianità e le difficoltà che incontra chi nel paese caucasico soffre di malattie mentali
(Originariamente pubblicato da Chai Khana il 17 agosto 2017)
Abbiamo intervistato un uomo azero di 34 anni con un disturbo mentale. Ha moglie, figli e un lavoro a tempo pieno, eppure i suoi genitori raramente lo lasciano "andare da qualsiasi parte da solo, nemmeno a prendere l'autobus”.
Soffre di disturbo della regolazione emotiva. Dopo decenni, sta imparando a conviverci, ma non è un processo facile.
“Ho 34 anni, e questa intervista mi fa paura”, dice il nostro interlocutore, abitante della capitale azera Baku, che ha scelto di rimanere anonimo per timore dello stigma associato alla sua condizione. “I miei genitori non lo sanno”, dice dell'intervista. “Se lo sapessero, non me lo permetterebbero”.
Epilettico, l'uomo combatte dall'infanzia con il disturbo della regolazione emotiva, una disfunzione cerebrale che può causare estremi sbalzi d'umore o compromettere il linguaggio.
In Azerbaijan e nel Caucaso in generale, farsi visitare da uno psicologo o psichiatra è causa di un tale stigma che spesso questi disturbi rimangono incurati. Secondo le statistiche governative del 2016, 96.848 cittadini azeri ricevono regolarmente cure psicologiche o psichiatriche, ma non sempre – fa notare un medico – rivelano la propria identità.
Il nostro interlocutore, che lavora in un ufficio di un ospedale di Baku, è fra coloro che preferiscono l'anonimato.
Ha deciso di parlare a Chai Khana delle sue esperienze, spiega, perché altri possano imparare a superare gli stereotipi negativi associati ai disturbi emotivi.
I problemi sono iniziati durante l'infanzia.
Nato con disturbi convulsivi, ha sofferto di crisi epilettiche fino ai 13 anni.
Come in altre zone della regione, anche i genitori azeri tendono a tenere i famigliari con gravi problemi di salute sotto una campana di vetro, cercando di proteggerli dal mondo esterno e di evitare che debbano cavarsela da soli.
Con il tempo, racconta l'uomo, la campana è cresciuta con lui.
Ricorda un episodio di quando aveva 11-12 anni, una gita scolastica nel centro storico di Baku.
“Al ritorno si sono dimenticati di me e mi sono perso”, racconta. “Volevo chiedere indicazioni per tornare in casa, invece mi hanno portato alla polizia. La polizia mi ha portato dalla mia famiglia e i miei genitori si sono arrabbiati. Dopo questo episodio, il controllo si è fatto più stretto”.
Alla fine della scuola, in famiglia hanno discusso a lungo la scelta degli studi. Secondo i suoi genitori, la sua cecità parziale rendeva sconsigliabile un'università pubblica, dove sarebbe stato solo un volto fra centinaia.
La scelta è caduta invece sul Baku Medical College, un'istituzione che rifletteva la professione di sua madre, infermiera. Lì l'uomo ha studiato per due anni e mezzo.
Anche a lui interessava la medicina, leggeva molto spesso i libri di sua madre, ma fa comunque notare che “nessuno ha chiesto il mio parere”.
Gli istinti protettivi dei suoi genitori si sono estesi alla vita privata: sono stati loro a scegliere la sua prima moglie, una lontana cugina. Il matrimonio è durato pochi mesi.
“Dopo, [i miei genitori] mi hanno detto di sposare chi volevo e che non avrebbero più interferito nella mia vita privata”.
Ha conosciuto la seconda moglie tramite un amico. La coppia e il figlio di due anni e mezzo vivono con i genitori di lui.
Tuttavia, continua, l'iper-protettività dei suoi genitori ha avuto il suo impatto.
Descrive la propria autostima come piuttosto bassa. Esita ad obiettare se qualcuno gli passa davanti in una fila o se un tassista fa un prezzo eccessivo. Percepisce discriminazione dappertutto.
I suoi parenti, dice, non capiscono che cosa sia un disturbo emotivo, e lo confondono con un ritardo cognitivo.
“Quando discutono temi o decisioni importanti, non chiedono mai la mia opinione”.
“Quando il marito di mia sorella vuole parlare con me, mi chiede quanto fa due più due. Praticamente si prende gioco di me”, continua. “Mia sorella non mi difende mai e pensa sia normale controllare le mie funzioni cerebrali ogni cinque minuti”.
Percepisce un doppio standard anche al lavoro.
"Quando arriva un nuovo dipendente, gli danno il mio spazio e mi dicono di andare da un'altra parte, oppure mi fanno fare il lavoro di qualcun altro”.
Non è stato possibile verificare queste affermazioni, ma certo riflettono una mentalità diffusa in Azerbaijan.
Chi soffre di disturbi mentali, conferma la dottoressa Gunel Valimammadova, psicologa presso il Centro nazionale per la salute mentale, è abitualmente oggetto di stigma al lavoro e nella vita sociale.
Anche se il Centro certifica l'abilità al lavoro di un paziente, "quando i datori di lavoro leggono 'disturbo dell'emotività', non accettano le sue competenze”, spiega Valimammadova. Un disturbo emotivo è spesso identificato con "follia", tanto che alcuni ristoranti di Baku rifiutano le prenotazioni per medici e pazienti del Centro.
Ostacoli simili si presentano quando i pazienti cercano moglie o marito. Il risultato è che spesso “sposano altre persone con disturbi mentali”.
Il nostro interlocutore ha cercato aiuto psicologico diversi mesi fa. Un mese di trattamento al Centro salute mentale di Baku lo ha aiutato a modificare il proprio comportamento e a trovare più sicurezza.
“Ha imparato a controllarsi”, commenta la sua psicologa, dottoressa Aygun Sultanova. “Non è più aggressivo verso gli altri. È calmo e riesce a difendersi”.
Al momento, sta frequentando un corso collettivo di teatro dove i partecipanti mettono in scena i propri problemi con gli altri per cercare potenziali soluzioni.
Anche gli altri hanno notato la sua nuova sicurezza. Il suo interesse per la fotografia ha portato i colleghi a chiedergli di fare da fotografo negli eventi ufficiali, racconta.
E lui stesso ha acquisito una nuova chiarezza di pensiero.
Pur essendo grato ai propri genitori, invita altri nella stessa situazione a lasciare più spazio ai figli con disturbi emotivi; senza limitarli, ma lasciandoli imparare dai propri errori.
Per comunicare questo concetto, essendo musulmano praticante, cita questo passaggio: “Avere un difetto fisico non significa che non siamo in grado di fare nulla. La cosa importante è avere un cuore buono. Dio ci guiderà”.
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