Una professoressa universitaria e grande viaggiatrice. Un viaggio con partenza e ritorno a Baku, Azerbaijan, alla ricerca della totalità del Mediterraneo. Una recensione
Di Laura Barile, docente di letteratura italiana all’Università di Siena, scrittrice premiata, per altro, dall’Accademia dei Lincei per le letterature europee, avevo un’immagine, se si vuole stereotipata, di professoressa coltissima che trascorre la sua vita nel chiuso di polverose biblioteche.
Invece, la scopro viaggiatrice ardimentosa e, ovviamente, curiosa , pronta ad attraversare frontiere e terre difficili e pericolose come può essere una regione come quella del Caucaso, tra Georgia, Azerbaijan, Armenia, Turchia, con punto d’arrivo e di partenza Baku sul mar Nero.
Ma è solo l’ultimo, lo si apprende dal suo libro “Le frontiere del Caucaso”, edito da Nottetempo, dei suoi tanti viaggi, di una piccola parte dei quali qui si racconta. E Laura Barile lo fa, questo sì, da professoressa colta, i suoi tre reportage contenuti in questo libro dominato dall’avventura caucasica, sono nutriti di letture, richiami, confronti.
Del resto l’autrice lo scrive in apertura: “I viaggi si portano dietro i libri. I libri sono il prolungamento del viaggio. Se uno legge un libro prima di partire non capisce granché, vede con gli occhi della mente in modo opaco e autobiografico, immaginando cose e luoghi simili a quelli che già conosce. Dopo no. Dopo il viaggio, non si smetterebbe più di leggere. Un libro tira l’altro, riconosciamo i posti e li immaginiamo nitidi e precisi, come sono ora, ma anche come sono stati in altre epoche, riconosciamo i dettagli e le persone”.
Ed ecco che l’esperienza dei sensi e della mente che il viaggio sollecita trova un completamento, meglio, un riempimento, che va a occupare tutti gli interstizi di una conoscenza la quale altrimenti resterebbe monca, incompleta. E ne viene sicuramente arricchita. Non solo per il viaggiatore, ma anche per il lettore se poi del viaggio si lascia una traccia scritta. Che, in questo caso, è straordinariamente scritta.
Il viaggio a Baku di Laura Barile è, pertanto, il suo viaggio, dalla decisione e discussioni di andarci per completare la sua conoscenza del Mediterraneo sul quale nel 2003 aveva scritto un bel libro “Il resto manca”, edito da Aragno, del quale parlai con entusiasmo, ai primi impatti visivi nelle diverse tappe. Il tutto corredato, consustanziato da citazioni di Mandel’štam (“Viaggio in Armenia”), di Simenon, che a Baku aveva ambientato un romanzo “Le finestre di fronte”, di Martin Amis per il suo “Koba the Dread” di Martin Amis, reperito tra gli “scaffali di un Bookshop di Tblisi, una libreria per lettori occidentali” e, infine, di Olivier Rolin con “Bakou, derniers jours”, trovato per caso in una piccola libreria del lungofiume, tra l’altro, in quel momento appena arrivato da Parigi.
Il Koba del titolo del romanzo di Martin Amis era un eroe georgiano, che rubava ai ricchi per dare ai poveri, ma era stato anche il primo soprannome di Stalin, la cui città natale – Gori, “a un’ora di autobus o bussìno detto maršrutka” da Tbilisi (o Tiflis in russo) – è stato una delle mete di Laura Barile.
“Veramente l’autobus, almeno quello che avevamo preso, come presto ci accorgemmo, non arrivava proprio a Gori. Bisognava scendere a una fermata nei pressi e poi attraversare un tratto polveroso-erboso per riprendere il nastro d’asfalto in un’altra direzione con un altro autobus, una scassata maršrutka che fermava ogni cinquanta metri, dirigendosi lentamente, e nel silenzio dei passeggeri che scendevano e salivano con calma alle fermate, verso la piazza principale della cittadina: piazza Stalin”.
Se gli altri passeggeri erano silenziosi non lo era Laura Barile che prese a parlare con il corpulento autista, il quale, a un certo momento, indicò un terreno vuoto, cosparso di polvere e detriti, dicendo che lì prima c’era la sua casa, fatta saltare nel 2008 dalle “bombe della guerra di Putin con la Georgia”. Poi la visita al Museo di Stalin, risalente al 1957, con vari cimeli tra i quali la carrozza ferroviaria che lo portò a Yalta nel 1945 “un vagone verde, lucido, con un elegante simbolo di falce e martello inciso tra i finestrini, sala da bagno, sofà, letti e tavolo da pranzo – tutto foderato di beige”.
Altre tappe del viaggio sono in Armenia, anche se qui poi s’incontrano delle difficoltà a causa di confini, per motivi politici, chiusi. “Oltre a quello con l’Azerbaijan, anche il confine orientale armeno con la Turchia è infatti inaccessibile. La Turchia ha inglobato il monte sacro agli armeni, l’Ararat, e il confine è invalicabile. L’Ararat, il loro monte, è dunque irraggiungibile per gli armeni, che lo guardano da lontano. La frontiera, segnata dal fiume che scorre limpido fra le gole montane sotto le rovine dell’antica capitale armena Ani, che i turchi stanno restaurando a modo loro, è inoltre sorvegliata dai russi”. Quindi chi vuole tornare indietro, a Baku, luogo di partenza per tornare a casa deve fare un giro largo, passando per la Georgia.
Il libro è corredato da fotografie in bianco e nero, scattate dalla stessa autrice del libro, che poi seppur più brevemente, ci racconta altri due viaggi, uno in Egitto, a El Alamein, e uno in Algeria, con la testimonianza della francesissima capitale, in cui “la casbah calcinata nelle sue case di gesso e calce bianca è arrampiacata sulla collina” è oggi in stato di abbandono, mentre è in fiore l’Algeri francese otto-novecentesca sorta al suo fianco. Anche qui, naturalmente, al reportage si affiancano le letture e le citazioni, tra le quali ovviamente il Camus de “L’etranger” e non solo. Anche se nel 2010, cinquantenario della morte del grande scrittore, ad Algeri non l’hanno voluto commemorare “con un appello Alerte aux consciences anticolonialistes che circola fra editori e scrittori accademici, contro i festeggiamenti che, dice l’appello, vogliono riabilitare il tema dell’Algeria francese”.
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