© Jugoslav Drobnjak/Shutterstock

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Nell'estate del 1991 spariscono i turisti in quella che allora era la Jugoslavia e inizia la presenza di militari e carri armati. E' l'inizio di un decennio di guerre

29/06/2021 -  Vittorio Filippi

Jugoslavia, estate 1991. In realtà la stagione turistica estiva non arriva e la Jugoslavia stessa cessa, in quei mesi caldi, di esistere. Eppure le estati degli anni Ottanta segnavano – da un punto di vista turistico – un successo continuo. Perché era almeno dagli anni Settanta che la costa dalmata – soprattutto quella croata, per ovvi motivi geografici – attirava masse crescenti di turisti stranieri, dall’est come dall’ovest.

Un turismo che sempre più diventava “privato” (le mitiche sobe) e sempre meno aveva la logica organizzata delle vacanze socialiste per i lavoratori. Alla fine degli anni Ottanta la sola Croazia accoglierà 86 milioni di pernottamenti, di cui 27 milioni di turisti jugoslavi.

Ma l’estate di trent’anni fa non accoglie più turisti, ma soldati, paramilitari, snajperisti, armi, distruzioni e morti. Insieme all’estate, è il paese stesso che se ne va in un crescendo di tensioni, scaramucce, incomprensioni, ripicche e violenze che all’Occidente appaiono del tutto incomprensibili. E quindi abbondantemente sottovalutate. Samo da rata ne bude, “Basta che non ci sia la guerra”, titolava una canzone dell’indimenticabile Đorđe Balašević nel 1986, quando mancavano ancora cinque anni all’inizio degli scontri armati e nessuno osava immaginare il tragico epilogo (anche se già c’era chi lo preparava). Invece l’epilogo è ormai pronto e viene servito ben caldo nell’estate del 1991, quando i grandi alberghi dallo stile socialista non risuonano più del vociare allegro dei turisti, ma si affollano di una dolente umanità fatta di sfollati, di feriti, di mutilati.

L’estate ha le sue tappe: comincia il 25 giugno con il distacco sloveno, prosegue il 6 luglio con la pace fredda di Brioni, una pace che non impedisce che luglio conosca un infittirsi di scontri e di stragi nella Croazia amputata dai secessionisti serbi che guardano a Belgrado, mentre con la cosiddetta battaglia di Okučani in agosto si interrompe l’autostrada Zagabria-Belgrado, una interruzione che ha anche un valore simbolico amaro, dato che questo grande asse viario era detto della “fratellanza e unità”. Il 1991 termina, se così si può dire, con il bombardamento di Dubrovnik e soprattutto con l’assurda distruzione della barocca Vukovar, conquistata dopo perdite pesantissime dalla JNA, l’esercito (ormai solo nominalmente) jugoslavo: una conquista che strategicamente non porterà a nulla e che contribuirà solo ad esaltare l’odio tra croati e serbi.

Il 1991 non solo segna l’epitaffio della Jugoslavia federale titoista che di lì a qualche mese, nell’aprile del 1992, verrà sostituita da una mini Jugoslavia serbo-montenegrina, ma apre anche con le convulsioni degli anni Novanta. Convulsioni che risparmieranno solo il piccolo Montenegro mentre raggiungeranno lo zenit in termini di eccessi di violenza e crudeltà in Bosnia prima ed in Kosovo poi. In questo senso l’estate del 1991 sarà purtroppo lunghissima e correrà fino al 1999, com’è noto.

Un decennio di fratture, separazioni, divisioni. E di dolori, lutti, vite perdute. Tanta, forse troppa storia che evidentemente – pur trent’anni dopo – continua a non essere ben digerita, se girano documenti in cui si propone di frantumare Bosnia e Macedonia per aggregarne pezzi alla Croazia, alla Serbia e all’Albania. La proposta è attribuita al primo ministro sloveno Janez Janša, sovranista di destra vicino all’ungherese Viktor Orbán, che però ha smentito, anche se il presidente del Consiglio europeo Charles Michel ha ammesso di averla ricevuta. A proposito, com’è diverso lo Janša attuale da quello del 1991: quando era libertario, democratico, nemico del centralismo serbo e dei militari comunisti della JNA. Irriconoscibile: davvero i Balcani continuano a produrre fin troppa storia, il che non è sempre un bene.


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