Festival di Berlino © Cineberg/Shutterstock

Festival di Berlino © Cineberg/Shutterstock

Si è conclusa di recente la 72° edizione del Festival del cinema di Berlino. Due premi a “Rabiye Kurnaz vs. George W. Bush”, storia vera di una madre turco-tedesca che ha lottato per anni per la liberazione del figlio Murat arrestato in Pakistan e ingiustamente detenuto a Guantanamo nel 2002

08/03/2022 -  Nicola Falcinella

Al 72° Festival di Berlino appena concluso con l’Orso d’oro allo spagnolo “Alcarràs” di Carla Simon ha ricevuto due premi “Rabiye Kurnaz vs. George W. Bush” del tedesco Andreas Dresen. Si tratta degli orsi per la sceneggiatura di Laila Stieler e per la travolgente interprete Meltem Kaptan come migliore attore o attrice protagonista. Racconta la storia vera della donna del titolo, una madre turco-tedesca che ha lottato per anni per la liberazione del figlio Murat arrestato in Pakistan e ingiustamente detenuto a Guantanamo nel 2002. Tra dramma e commedia è un’accusa all’ex presidente americano e pure al governo tedesco rosso-verde (e al ministro degli Esteri del tempo, Joschka Fischer) che, per ragioni di immagine, non accettò di riprendersi il prigioniero.

Il 3 ottobre 2001, poco dopo l’attentato alle Torri gemelle, il diciannovenne Murat parte con un amico da Brema per andare in Pakistan a studiare il Corano. Il compagno è trattenuto all’aeroporto per debiti pregressi, ma il giovane raggiunge il paese asiatico, dove è arrestato dagli americani con l’accusa di essere talebano e portato nella prigione sull’isola di Cuba. La madre non si arrende alle poche notizie, trova un avvocato per i diritti umani che si interessa al caso e la assiste, del resto è difficile dirle di no e resistere alla sua irruenza. I due ci provano in tutti i modi, con i tedeschi, con i turchi (il ragazzo è ancora cittadino di Ankara), poi contattano avvocati e parenti di altri detenuti e vanno a Washington a fare esposto alla Corte suprema e indirizzano una lettera a Bush. Per l’odissea giudiziaria e processuale, il film ricorda un po’ “The Mauritan”, ma il tono qui è diverso, soprattutto per la figura di Rabiye, travolgente, semplice (non conosce niente della situazione internazionale), spiccia, materna che pensa sempre al bene delle persone, si preoccupa di tutto e guida pericolosamente a modo suo. Un buon film, canonico, ma articolato, che riesce a toccare parecchi aspetti ed essere coinvolgente oltre che divertente.

Il premio opera prima, per il migliore esordio tra i film presentati nelle diverse sezioni, è andato all’austriaco “Sonne” di Kurdwin Ayub, curda d’origine, presentato nella sezione Encounters.

Vienna. Yesmin adolescente di famiglia curda originaria dell’Iraq. In casa gioca con le amiche Bella e Nati (una è “mezza jugo”, come spiegherà). Si vestono con i veli della madre che usa per pregare, cantano “Losing my religion” dei Rem, ballano, si filmano, mettono i video suoi social. Finché le interrompe il fratello Kerim, che esce molto spesso con gli amici tra i rimproveri del padre, mentre la madre tende a proteggerlo. I genitori si comportano a rovescio con la figlia: il padre la difende e apprezza la canzone quando vede il video, mentre la madre si arrabbia perché ha utilizzato le sue cose. Il brano musicale, gli smartphone, i social e le consuetudini sociali (soprattutto il velo) sono in cardini su cui si appoggia il film, molto fresco, dinamico, attuale anche nella forma che sceglie. Le ragazze, anche se Yesmin in pubblico porta il velo (e si discute parecchio di hijab e niqab), vivono all’occidentale, finché a una festa conoscono due curdi siriani arrivati non da molto che ne criticano i comportamenti. E da lì inizia qualche guaio. Sia i genitori sia i figli, in modo diverso, sono a cavallo tra due mondi e tra due culture, anche se a loro modo all’inizio sembrano aver trovato un equilibrio: sono musulmani praticanti e tra loro parlano tedesco. Pur senza troppe pretese sociologiche, “Sonne” mostra che l’integrazione è un processo diverso per ciascuno e senza una destinazione precisa o prefissata, un percorso che gli eventi esterni possono modificare. La regista sceglie di essere molto empatica con la protagonista e impiega molte riprese fatte con i telefoni, anche in soggettiva, con immagini sporche e talvolta l’audio dei cellulari.

Uno dei migliori della stessa sezione è il russo “Brat vo vsyom – Brother in Every Inch” di Alexander Zolotukhin. I gemelli Mitja e Andrej sono allievi di una scuola militare di volo nel sud della Russia. Il primo non impara ad atterrare correttamente ed è rimproverato, mentre il fratello è in apprensione per lui. A sua volta Andrej sviene in volo con l’istruttore e si salva solo per la presenza di quest’ultimo. Il giovane è sottoposto a una serie di visite mediche e non si sa se potrà ancora volare. Intanto un aereo precipita perché si imbatte in uno stormo di uccelli e bruciano il canneto per allontanare gli uccelli. È il rapporto tra gemelli diversi e molto legati, che devono rimettere in discussione le loro scelte: tra i due si inserisce anche Lera, sfuggente ragazza della zona. Un film asciutto ed essenziale (anche con poca musica), girato in pellicola con una fotografia molto bella che utilizza pochi colori. C’è un po’ di cameratismo nei giochi tra commilitoni, ma non c’è nessun eroismo o militarismo.

Sempre in Encounters era presente il greco “I poli ke i poli – The City and the City” di Christos Passalis e Syllas Tzoumerkas (noto per “Homeland” e “A Blast”). Un raro film greco di oggi ambientato nel passato, molto molto interessante nei contenuti e in quello che racconta, molto discutibile per la forma scelta. La città del titolo è Salonicco, vista dal 1931 a oggi. I greci fuggiti dal Ponto crearono un partito nazionalista e iniziarono a perseguitare gli ebrei fino alla guerra e alle deportazioni. Il film racconta, procedendo per episodi slegati, l’evoluzione della città e soprattutto la presenza ebraica, i cui segni furono cancellati: sopra il cimitero venne costruita l’università, le case furono occupate e non restituite. L’ambientazione a Salonicco, il passato e la storia fanno subito pensare al grande Teo Angelopoulos, ma lo stile è completamente diverso. “I poli ke i poli” è una docufiction pretenziosa che alterna immagini documentarie a scene ricostruite, mescolando troppi stili e troppi livelli, senza una vera motivazione. Comunque è un film che lascia dentro qualcosa.

Molto interessante, stavolta nella sezione Generation riservata ai giovani, “Moja Vesna” opera di debutto della slovena Sara Kern, un altro rapporto tra giovanissime. Siamo in Australia e Moja, di dieci anni, vive con il padre d’origine slovena e la sorella Vesna, mentre la madre è morta da poco. Un film minimalista e delicato, dove non accade molto, un’elaborazione del lutto, tratteggiata con sensibilità, mentre si attende una nuova vita. La sorella maggiore scrive poesie e le legge alla più piccola, alla fine ne scrive una per Moja. Anche qui i personaggi sono a cavallo, almeno linguisticamente, tra le origini e il presente: le ragazze con il padre (è Gregor Bakovič, uno dei volti più noti del cinema sloveno) parlano in sloveno, tra loro parlano in inglese. Il titolo è un gioco di parole sui nomi e sul fatto che “moja” significa anche “mia”.

Nella sezione Panorama secondo posto nella classifica del premio del pubblico a “Klondike” dell’ucraina Maryna Er Gorbach, in coproduzione con la Turchia. Un film che unisce la vicenda personale di Irka e Tolk, che vivono sul confine tra Ucraina e Russia, con l’abbattimento del volo MH17 della Malaysia Airlines da un missile poco distante dalla loro abitazione già danneggiata.

Nella stessa sezione c’era il russo-uzbeco “Produkty 24 – Convenience Store” di Michael Borodin, dove il titolo corrisponde al nome del negozio alla periferia di Mosca, gestito da Zhanna e sempre aperto, 24 ore su 24. All’inizio l’uzbeka Mukhabbat, che lavora nel frequentatissimo reparto alcolici, si sposa con un collega, ma sembra una celebrazione per convenienza. La prima metà è tutta ambientata nel negozio, dove la protagonista è sottoposta a turni massacranti, con clienti molesti e violenti. Poi la giovane tenta la fuga, prima nella metropoli e poi a lavorare nei campi di cotone. Un film sospeso tra l’estremo realismo e tocchi surreali, in un continuo di violenza e tensione che sembrano non lasciare vie d’uscita. Ci sono pure un paio di momenti di cinema fantastico, compreso il visionario finale, ben fatti.

E' invece deludente, nella sezione Forum, “Afterwater” del serbo-tedesco Dane Komljen (è nato a Banja Luka), coproduzione Germania / Spagna / Corea / Serbia. Un film indefinibile, poco interessante, nel quale si fatica a entrare. Le immagini di due momenti - prima una giovane coppia su un lago in Germania, poi un trio su un lago in Spagna – sono senza dialoghi, ma accompagnate da voci off che leggono spezzoni di scrittori o filosofi su scienza, natura e filosofia: si parte dai laghi (“spesso nati da una catastrofe”), ma è arduo seguire il filo, sempre che ci sia.


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