Il processo di riunificazione europeo come scontro tra opposte utopie. La realtà conosciuta dopo l'ebbra notte del 9 novembre 1989, quando Est e Ovest si sono stretti la mano sotto le macerie del Muro. L'intervento della sociologa Melita Richter
Fotoreportage da Berlino di Anna Cavarzan
Al Convegno internazionale di psicologia politica che si è svolto a Berlino nel giugno del 2002 (1), una relatrice statunitense di origine tedesca ha costruito la propria relazione attorno ai disegni dei bambini delle scuole elementari di Berlino ovest. I disegni di cui la studiosa disponeva erano stati eseguiti ai tempi della divisione della città, separata in due dal Muro. Il tema dei disegni era: Come immagino la vita a Berlino est. Le mani dei piccoli artisti hanno riportato ciò che nella loro fantasia doveva rappresentare l'universo del mondo della Repubblica democratica tedesca: le case grigie, le vie vuote, ogni tanto un militare in uniforme, i carri armati sugli incroci delle strade, ritratti di bambini e bambine con facce tristi e senza giocattoli, stelle a cinque punte che svettano dai tetti... L'analisi dell'esperta si è soffermata a lungo sui contenuti dei disegni; ne è venuto fuori un ampio testo sulla rappresentazione simbolica della società tedesca dell'est, sulla Berlino sconosciuta, murata. In nessun momento la studiosa si è chiesta quale sarebbe potuta essere l'immagine riflessa della società della Germania occidentale, o meglio, quale immagine della Berlino ovest si sarebbe potuta trovare nei disegni dei piccoli disegnatori Ossis. Nessun interesse a ricomporre le immagini di una città separata, di confrontare i due modelli simbolici, di individuare come gli stereotipi possono essere di casa da ambo le parti, come la mente dei bambini riflette non ciò che vede, ma ciò che il mondo dei grandi propone come verità... Una verità distorta, filtrata.
Mentre cercavo di affrontare mentalmente il tema della caduta dei muri in Europa, mi è tornato il ricordo di questa relazione così significativa per la nostra visione dell'altro che si presenta spesso unidirezionale, guidata da uno sguardo eurocentrico occidentale, non di rado impregnato ideologicamente. E mi sono chiesta: dopo la caduta del muro di Berlino e dopo l'allargamento dell'UE, dopo l'abbattimento simbolico della rete divisoria che separava la città di Gorizia da quella di Nova Gorica, ultimo emblema della lacerazione di un tessuto urbano causata dalla Seconda guerra mondiale, quale è la nostra immagine dell'altro da noi, chi è egli nel nostro costrutto mentale, a che mondo appartiene e che ne sappiamo del suo mondo? Quale è oggi quest'Altra Europa, il tessuto escluso dallo stesso corpo europeo? E ancora: le immagini che serbiamo gli uni degli altri sono dei ruvidi tasselli maldestramente incastonati di una realtà sfuggente, o sono proiezioni delle nostre utopie? E se di utopie si parla, di quali utopie?
Vorrei tornare con il pensiero a Berlino, il luogo di per sé simbolico della profonda lacerazione europea e del suo recente risanamento, a seguito dell'unificazione delle due Germanie.
In quella indimenticabile notte che ha fatto trepidare tutta l'Europa, nella notte ebbra del 9 novembre del 1989, i cittadini delle due Germanie stavano partecipando ad un evento storico di straordinaria importanza. Gli Ossis e i Wessis, ognuno dalla propria parte stavano picconando il muro, abbattendo le barriere di cemento, aprendo squarci per sgombrare la via all'abbraccio fraterno delle due Europe. Essi divenivano protagonisti dello stesso evento storico, un evento straordinario, ma ognuna delle parti coinvolte aveva una propria comprensione di quanto stesse facendo. In effetti, loro stavano facendo due cose diverse. Ognuna delle parti serbava la propria verità, inseguiva la propria chimera: per l'Occidente l'abbattimento del Muro non era altro che l'ultima spallata all'odiato regime comunista che li aveva privati di una patria comune per quasi tre decenni; la loro era una vittoria morale sul totalitarismo. I Wessis portavano la libertà e il potere ai non liberi, ai deprivati della storia; il loro era il trionfo del consolidato capitalismo sulle macerie del comunismo sovietico. Gli Ossis aprivano la porta verso l'Occidente, cancellavano le differenze che avevano stigmatizzato le loro vite, abbattevano l'ingiustizia storica. Almeno così credevano. Loro letteralmente irrompevano nell'Occidente, si liberavano del muro che era stato molto di più dei 67 chilometri di cemento armato (lunghezza totale 115 km, torri di osservazione 300) che li aveva tenuti in isolamento dal resto dell'Europa. Dopo l'abbattimento e dopo il commovente abbraccio tra concittadini, dopo lacrime e birra versati a fiumi, essi non si sono fermati nei pressi delle macerie, ma sono affluiti capillarmente in tutta Berlino Ovest, hanno invaso le vie centrali di quel mondo abbagliato da mille luci dei lussuosi negozi e scintillanti vetrine della famosa Kudamm, l'abbreviazione della Kurfurstendam Strasse, la Champs-Elysées berlinese, sono irrotti nei quartieri ricchi e lì hanno annullato le separazioni, diventando in quella notte stellata uguali agli altri cittadini berlinesi. Lì sono diventati europei. Questo era almeno ciò che essi pensavano di stare facendo.
Il ricordo di uno dei protagonisti è ancora vivo, egli serba ancora la sensazione di incredulità e di stupore che costellavano quella notte storica, notte da sogno: "La notte che il Muro crollò ero al lavoro. Poco dopo andai sulla Bornholmenstrasse e ci camminai sopra. Ero ubriaco dello spumante dei tedeschi occidentali. Era un'enorme festa, mi sentivo come dentro un sogno - non ero né felice né infelice, pensavo solo che non fosse reale". (2)
L'avvenimento simbolico della caduta del Muro di Berlino, e della miracolosa notte di novembre, rimane il segno più evidente della separazione delle visioni delle due Europe; più che il ritrovo e l'abbraccio di una nazione, esso ha evidenziato le differenze delle aspettative delle parti che si incontravano, le utopie scisse dell'Est e dell'Ovest europeo.
Dedicando un'ampia riflessione al valore simbolico degli avvenimenti attorno alla cancellazione della cortina di ferro, la sociologa croata e attuale figura politica di spicco, Vesna Pusić, in uno dei suoi saggi politici sottolinea le differenze nelle aspettative che le due parti serbavano sui grandi cambiamenti nell'Est Europeo: "I progetti esteuropei sono stati formati sotto la forte influenza della propria immagine dell'Occidente. L'Occidente ha rappresentato la libertà ma nel suo significato esplicito ed immediato, questa libertà politica si è dimostrata primaria per una cerchia relativamente stretta di persone. La maggior parte individuava nell'Ovest il luogo del benessere, della libertà di viaggiare, di attraenti vestiti, di musica da status. Lì la stravaganza era un gioco comune, quotidiano ed accessibile a tutti e non un'espressione dello straordinario coraggio borghese. L'Ovest significava anche l'inclusione, la partecipazione al mondo reale, al luogo dove le cose prendono la loro origine, dove nascono gli avvenimenti cui solo derivati e riflessi a volte arrivavano a penetrare nell'Est. La cultura dei giovani, la quotidianità, il vestiario, il cibo, la pubblicità, i film, tutto quanto orientava l'Europa dell'Est verso l'Occidente e diffondeva una sensazione che essa si trovasse in una sala d'aspetto della vita reale". (3)
L'Europa dell'Est come sala d'aspetto. Ma l'Europa dell'Est si vedeva anche come un grande attraente mercato e si aspettava che l'Occidente investisse enormi capitali nel commercio, nelle economie locali e desse uno spintone al tanto sognato progresso, a trasformare la modesta sala d'aspetto in un'oasi dorata e vitale. Questa speranza si è dimostrata una grande illusione tradita.
Di quale utopia si nutriva l'Occidente? Quale immagine serbava delle società dell'ex blocco sovietico?
Alla base della sua visione dei fatti c'era la poca conoscenza del mondo oltre la reale e l'immaginaria cortina di ferro. L'aspettativa dell'Occidente era deposta nelle iniziative della società civile conosciute ed ampiamente riproposte dai media occidentali come le ribellioni degli intellettuali, le loro lettere aperte, il coraggio degli studenti di sfidare la polizia dei regimi totalitari, la dissidenza sommersa e le biblioteche samizdat, le straordinarie jam session considerate sovversive dai regimi. Si attendeva quindi che, una volta caduto il Muro, questi paladini della libertà del pensiero e della parola diventassero i veri vincitori. L'Occidente credeva che i vari Andrei Saharov e Elena Bonner, i Lech Walesa, i Vaclav Havel, gli Adam Michnik e Ota Šik, figure di straordinaria forza morale che, dopo anni di annientamento psicologico e umiliazione fisica, da vincitori morali sarebbero diventati anche vincitori politici sulle oligarchie partitiche. Di questo si nutriva la grande utopia dell'Occidente e questo è avvenuto soltanto nel caso di Havel e in parte per Lech Walesa. La semplicistica linearità del pensiero occidentale si riassumeva nel credo che con l'eliminazione degli stati repressivi e dittatoriali si sarebbe aperta la via a società democratiche, creative e trasparenti.
L'Occidente ha commesso uno sbaglio madornale aspettandosi che le società nate sotto i regimi totalitari, sotto i "cattivi stati", avrebbero assicurato un'automatica nascita di nuove democrazie. La Pusić ricorda: "L'errore dell'Occidente è consistito nella supposizione che i cattivi stati non avrebbero lasciato cattive conseguenze sulle società. Gli eccezionali individui singoli, il loro coraggio, le straordinarie iniziative della società civile promosse prima dell'abbattimento dei vecchi regimi, sono state erroneamente generalizzate su società intere. Si pensava che sarebbe bastato abbattere i vecchi oligarchi e rompere la corteccia delle società partitiche affinché fiorissero società giuste, politicamente mature e articolate". (4)
Ci si aspettava che le nuove società fossero capaci di produrre delle istituzioni sostanzialmente diverse dalle vecchie e che la coscienza civile, l'integrità e la cultura politica della sfera civile si potessero "travasare" nelle nuove forme statuarie. Questo non è avvenuto.
Le società che si sono formate dalle ceneri dei regimi socialisti hanno ognuna avuto una propria via nella realizzazione delle nuove identità statuarie, nelle modalità della transizione, ma generalmente sono rimaste lontano, e tuttora per molte è così, dal riuscire a completare la propria trasformazione democratica e realizzare una società partecipativa, politicamente autonoma e matura. Le "nuove democrazie", come sono stati chiamati gli stati nati dopo la caduta del comunismo, non sono state né "inondate" dal capitale estero e dal progresso economico, né sono state bagnate da troppa democraticità interna. Per molti, e particolarmente questo è proprio dei paesi nati nell'area jugoslava, i nuovi governi hanno primariamente tenuto conto degli irrazionali interessi "storici", nazionali(stici), nell'ottica del secolo diciannovesimo, dei tempi delle fondazioni delle società etnicamente omogenee. Essi sono stati portatori di una politica che ha generato la collisione degli interessi contrapposti dei diversi nazionalismi, e condotto alla brutale guerra fratricida che ha arrestato il progresso economico e la stabilità dell'intera regione del Sud-Est europeo. Il miglioramento della reale esistenza dei cittadini, i diritti umani e quelli civili, l'autonomia delle istituzioni, della giustizia, la razionalità politica e la partecipazione della cittadinanza alla sfera pubblica, tutto questo è stato, un'altra volta, posposto per incerti tempi futuri, per "tempi migliori".
La realtà che ha caratterizzato la fase di transizione, e la proiezione delle utopie da ambo le parti, hanno subìto una prima amara collisione, per poi sbocciare in un profondo senso di disillusione tra i cittadini. Una disillusione reciproca tra l'Ovest e l'Est, diluita soltanto dal bramato sogno di quest'ultimo del "ritorno all'Europa!", dalla partecipazione al processo dell'allargamento.
Al concetto di ritorno all'Europa alcuni teorici occidentali hanno affiancato la considerazione che i paesi postcomunisti, dopo esserne stati a lungo deprivati, finalmente stavano per entrare nella "normale storia". Una simile posizione ha irritato gli intellettuali dell'Est europeo. Ecco la riflessione sull'argomento espressa dal filosofo ungherese Ferenz Fehar in un suo testo scritto poco prima della morte avvenuta nel luglio del 1989: "Il peggior consiglio che i paesi postcomunisti hanno mai potuto ricevere è stato quello che voleva incoraggiarli con la dichiarazione che ora finalmente essi entrano nella "normale storia". Questo tono palesemente umiliante non era soltanto offensivo, ma poneva in questione la "normalità" della storia (per le sue stesse norme), nella quale essi sarebbero dovuti entrare. (...) Un suggerimento simile, volente o nolente, cercava di inculcare ai cittadini del mondo postcomunista il senso di inferiorità originato dalla loro drammatica e istruttiva storia. Allo stesso tempo, si rivolgeva loro come se fossero ottusi e acritici scolaretti, richiamati nei banchi di scuola dove si parla di una storia che non è la loro". (5)
Un giudizio molto simile lo esprime pure Eva Hoffman, nota scrittrice polacca che ha lasciato il proprio paese all'età di 13 anni assieme alla famiglia, ebrea, e che da allora vive tra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. La Hoffman è un'attenta osservatrice e conoscitrice dei due mondi, l'Occidente e l'Est europeo. "Vi è una diffusa convinzione nell'Occidente, sostiene la Hoffman, secondo cui l'Europa dell'Est si trova in una fase adolescenziale, dalla quale essa dovrà crescere verso la "nostra via", goffamente e lentamente. Ma, dopo tutto, questa via dell'Occidente non è poi tanto misteriosa, né gli est-europei sono degli sprovveduti teenagers...". (6)
Nonostante il processo dell'allargamento abbia coinvolto alcuni paesi dell'Est europeo da soggetti storici e li abbia trasformati in autonomi protagonisti della scena politica dell'Unione, vi è una diffusa sensazione che pervade ampie sfere della vita intellettuale dell'Est secondo la quale l'Ovest non ha mai cessato di considerare la regione centro ed est europea come l'Altra Europa, quella meno sviluppata, meno civilizzata, turbolenta, fonte di primitiva selvaggia e divertente operetta. Su questo tema esiste un'ampia letteratura, qui vorrei ricordare come lo affronta un altro grande ungherese, György Konrád, in una sorta di autoanalisi critico-ironica: "Noi siamo i parenti bisognosi, noi siamo gli aborigeni, noi siamo i diseredati: arretrati, ottusi, deformi, squattrinati, scrocconi, parassiti, truffatori, imbroglioni. Sentimentali, all'antica, infantili, disinformati, apprensivi, melodrammatici, tortuosi, imprevedibili, negligenti. Siamo quelli che non rispondono alle lettere, quelli che hanno perso la grande occasione, beoni, chiacchieroni, sfaticati, quelli che non rispettano le scadenze, quelli che non mantengono le promesse, spacconi, immaturi, assurdi, indisciplinati, permalosi, quelli che si insultano l'un l'altro a morte ma non riescono a rompere le amicizie. Noi siamo i disadattati, quelli che si lamentano sempre perché sono intossicati dalle sconfitte. Siamo irritanti, eccessivi, deprimenti, siamo anche un po' infelici. Si sono abituati a disprezzarci. Siamo forza lavoro a buon mercato, da noi le merci hanno minor prezzo, ci portano in regalo i giornali già letti. Le nostre lettere sono battute a macchina in modo sciatto, e sono zeppe di dettagli superflui. Sorridono di noi, con compassione, finché d'un tratto non diventiamo sgradevoli. Finché non diciamo nulla di strano, di tagliente; finché non tiriamo fuori le unghie e i denti; finché non diventiamo cinici e selvaggi". (7)
Konrad insiste con particolare estro sullo stigma radicato che segna la faglia tra i modelli culturali europei, una faglia originata dalla reciproca non conoscenza, più che da una determinante storica; egli circoscrive, cristallizzandolo, lo stereotipo che genera lo stigma. Ma è evidente che gli eredi del 1989 vivono in due dimensioni distinte; la prima è quella che annuncia lo stesso Konrad, il diffuso senso di inferiorità, l'altra è l'inarrestabile voglia di piacere all'Occidente. Feher direbbe che da queste condizioni si esce soltanto con una necessaria nuova teoria critica. Secondo lui, se la vecchia teoria critica aveva per obbiettivo la critica della modernità, la nuova deve mettere sotto la lente d'ingrandimento i problemi della democrazia manifesti nel rapporto tra lo stato e la società.
Soffermiamoci sul senso di inferiorità-superiorità di cui si accenna sopra. Sarà di nuovo lo scenario berlinese che ci mostrerà come questo senso possa essere tramutato in qualcosa di diametralmente opposto.
La vita oltre la cortina di ferro scorreva con tempi sincopati: si amava, ci si ubriacava, ci si allineava agli obbiettivi di produzione proclamati in una società che non conosceva disoccupazione, si festeggiava, si soffriva, si moriva. E soprattutto, ci si arrangiava. Anche nel captare schegge di vita dall'altra parte, dove l'altra significava non soltanto la parte mancante della città, ma il mondo intero.
Ingolf, un musicista nato e vissuto a Berlino est, testimone della vita nella città separata ricorderà: "La mentalità tedesco-orientale era influenzata dall'Europa dell'Est: c'era una maggiore spontaneità tra la gente, le persone erano più semplici e genuine. Ogni fine settimana con gli amici andavo a una festa, ognuno portava dolci e vino e si festeggiava fino all'alba. Io sono cresciuto con la musica di Frank Zappa. Era difficile trovare buoni dischi o strumenti per suonare, ma c'era sempre una 'nonna' dell'Ovest che poteva procurarteli. A Berlino Est avevamo la fortuna di poter ascoltare le radio occidentali. Erano il mezzo principale per la nostra formazione e istruzione, ma soprattutto erano cibo per l'anima". (8)
La psicoterapista berlinese Gisela Ehle, lei stessa una Ossis, ha cercato di standardizzare le risposte di una ricerca condotta nel 1986 tra i cittadini della DDR di età compresa tra i 18 e i 40 anni, e a compararle con quelle di uno stesso campione della popolazione dei cittadini della BRD, ricerca svolta nel 2001 dal noto psicologo berlinese Brähler (9). I risultati si sono dimostrati davvero interessanti ed è emersa una specie di sguardo transfrontaliero contemporaneo dei cittadini berlinesi.
Trattando le differenze e vivendo tra le differenze, la Ehle ha trovato che i tedeschi dell'Est soffrono della narcisistica offesa per il fatto che il miglioramento economico, che essi fantasticavano nei loro sogni, non è avvenuto. Invece del miracolo economico, si sono trovati di fronte a licenziamenti, alla perdita dei posti di lavoro, alla perdita della posizione sociale e dell'influenza culturale ed economica precedente, sia a livello individuale che di gruppo. Questi fattori hanno alimentato un senso di umiliazione e di colpa che i cittadini dell'Est hanno accettato con vergogna, con rabbia e con invidia, e hanno cercato di tramutarli in una manifesta auto-stima positiva. Le distanze oggi si stanno accorciando, le differenze affievolendo. All'epoca la ricerca aveva rivelato il fatto che essi si sentono privi di ogni ruolo decisivo nel futuro sviluppo della società, di non aver alcun peso nel centro dove le cose "avvengono". Questo ha forgiato la loro identità, quella degli "Easterners", dei cittadini dell'Est, diversi, coloro che sono portatori di un'etica di vita e della nobiltà di pensiero (10) in qualche modo ostacolata dalla riunificazione. Essi si sentono migliori negli intenti dai loro fratelli occidentali guidati dal dio profitto. In tal modo, essi cancellano l'opzione storica del fallimento. Dall'altra parte, i Wessis rifiutano una simile ottica, considerandoli ingrati e immemori dell'essere stati ammessi alla spartizione della torta, ovviamente una torta ricca e gustosa grazie all'impegno e al duro lavoro dei soli Wessis.
I tedeschi dell'Ovest sono profondamente delusi per il fatto che il loro benessere non sia sufficientemente apprezzato come meritevole per la sicurezza sociale dell'intera società. Al contrario, succede che più grande è la BMW che essi esibiscono, più manifesto è il sospetto da parte degli Ossis che dietro ci possa essere qualcosa di poco onesto, poco chiaro... Negli occhi degli Ossis la visibile superiorità economica dei Wessis nasconde il subconscio senso di colpa dei Wessis per tutte le perdite e le rovine della Seconda Guerra Mondiale con cui hanno dovuto confrontarsi in maniera significativamente maggiore i cittadini della Germania dell'Est. Per ambo le parti l'attuale andamento economico è troppo lento. Secondo gli Ossis la unificazione delle due Germanie ha portato a una breve impennata economica soltanto la parte Occidentale. Questa parte ha usato l'area orientale prevalentemente come mercato. Nel processo della transizione, tutte le posizioni manageriali importanti sono state occupate da cittadini della Germania occidentale. Inoltre, aggiunge la Echel, i media hanno trattato tutti i risultati raggiunti dalla Repubblica democratica tedesca come non legittimati, cercando di sminuire i valori su cui essa si ergeva. Hanno proclamato l'antifascismo una "attitudine da decreto", la piena occupazione come "mancanza di vero management", l'assenza dei senza tetto come "la vita nei container", i successi nel campo della cultura come "finanziamenti statali, quindi, pressione ideologica", i successi nello sport come "il vero doping della nazione". La conclusione poteva essere solo che una: la legittimità della superiorità della Germania dell'Ovest poggiava sul fallimento della Germanica dell'Est.
La indotta valutazione negativa dell'esperienza dell'intera vita ha colpito molti cittadini dell'Est, ma lo strato sociale che ha subito in modo più profondo questo fenomeno è rappresentato dalla precedente élite politica, economica, culturale. Questa fetta della società si è sentita inaspettatamente sconfitta per il fatto di aver speso le proprie energie vitali in un sistema perdente.
Ci sarebbero altre constatazioni interessanti che emergono dalla comparazione delle ricerche dei due autori tedeschi, quelle che rivelano abitudini comportamentali diverse. Per esempio, Brähler trova che:
- i tedeschi dell'Est si danno la mano ogniqualvolta si incontrano, quelli dell'Ovest solo in occasioni di presentazioni formali;
- i tedeschi dell'Est si siedono a un tavolo già parzialmente occupato da altri molto più spesso di quanto non lo facciano i tedeschi dell'Ovest;
- i tedeschi dell'Est stanno molto più vicini gli uni agli altri mentre aspettano in coda di quanto lo facciano i tedeschi dell'Ovest;
- una donna che non lavora agli occhi dei tedeschi dell'Est viene considerata disoccupata, in quelli dell'Ovest fa la "moglie";
- i tedeschi dell'Est si considerano perdenti nel processo di transizione e più pessimisti sul futuro economico della Germania;
- loro sono più spesso contro l'invio di truppe tedesche all'estero;
- un numero più alto di tedeschi dell'Est (70%) ha votato contro l'opzione militare in Kosovo, in Afghanistan, in Iraq, di quanto non lo abbiano fatto i cittadini della Germania dell'Ovest (50%);
- in comparazione con l'Ovest, i tedeschi dell'Est trovano i diritti sociali ed economici molto più importanti dei diritti civili dei cittadini.
Le autrici del libro "Berlino", osservatrici neutre del tessuto socio-culturale tedesco, aggiungono la loro osservazione sulle differenze tra gli abitanti della città non più separata: "Gli Ossis per i Wessis sono sempliciotti e un po' provinciali, i Wessis per gli Ossis arroganti e sapientoni. ... Sembra che gli Ossis non conoscano la diplomazia e per questo dicano sempre quello che pensano, senza paura di mettere in imbarazzo l'interlocutore. I Wessis la conoscono fin troppo, sarà l'influenza americana." (11)
Sulla natura della semplicità del cittadino dell'Est e in qualche modo sulla sua idoneità a lasciarsi manipolare, chiuderà il quadro il già citato musicista Ingolf con la stesura di un sintetico bilancio, non privo di note amare: "Il tedesco orientale è di per sé conservatore e disinteressato, un piccolo individuo neutrale, facile da manipolare. Gli hanno svenduto il paese sotto il naso e non ha mosso un dito. In quel periodo erano tutti felici di avere i supermercati e di potersi ubriacare con la birra occidentale. Adesso sono tutti infelici perché sono disoccupati. Qui non è come in Italia, dove la gente per temperamento parla se c'è qualcosa che la fa soffrire. I tedeschi - soprattutto quelli orientali, a cui è mancato il contatto con i popoli mediterranei - sono differenti, sono chiusi e introversi". (12)
Vi è un elemento ulteriore che ha segnato le due società della Germania riunificata: si tratta del rapporto verso la memoria collettiva. Non solo gli storici, ma una parte della cittadinanza si è accorta della volontà politica del governo centrale di cancellare sul terreno la presenza storica dello Stato comunista tedesco. Partendo da quella frase pronunciata nella ebbra notte di quel 9 novembre del 1989 dal consigliere di Kohl, Michael Sturmer: "Chiunque controlla la storia, controlla il futuro", la ventata iconoclasta si era abbattuta immediatamente, nei primi anni novanta, sulle tracce monumentali e sulla toponomastica di Berlino-Est (13). Dopo questa esperienza, i tedeschi orientali "hanno accusato apertamente la Germania Occidentale di voler colonizzare Berlino Est e di voler imporre la loro visione della storia senza negoziazione o coinvolgimento nel processo dei più diretti protagonisti di essa" (14). Il rispetto della storia e dei reciproci luoghi memoriali è stato uno dei più importanti nodi nei rapporti tra le due Germanie e, in qualche modo, il dibattito su questi argomenti ha contribuito all'ulteriore rafforzamento delle due identità tedesche, sia a Est che a Ovest. Gli storici hanno chiamato questo fenomeno una massiccia "rinazionalizzazione tedesca" avvenuta dopo la caduta del Muro.
* * *
I vecchi muri cadono sotto le trombe dell'aria della storia, i nuovi si ergono e alla loro ombra covano sotto la cenere i vecchi e i nuovi timori degli europei. Quello che i cittadini dell'Unione europea temono maggiormente è riassumibile in un elenco solo approssimativo:
- la paura che i neo-arrivati, prevalentemente i paesi dal passato comunista di cui molti con un forte presente nazionalista, possano portare all'interno del seno europeo elementi della loro cultura politica, il loro comportamento non democratico, la conflittualità;
- che i neo-membri dell'Unione, situati prevalentemente ai bordi orientali e meridionali della Fortezza Europa, non saranno garanti sufficientemente sicuri dell'impenetrabilità dei confini comunitari. La paura delle invasioni dall'Est è radicata nel seno dell'Unione;
- che l'entrata dei cosiddetti "nuovi poveri" eroderà l'opportunità delle sovvenzioni e degli importanti aiuti comunitari di cui godevano le regioni meno sviluppate dell'Unione;
- la paura delle migrazioni di massa all'interno dell'Unione, lo spostamento dei cittadini da paesi diventati membri con l'ultimo allargamento.
Dall'altra parte, si cristallizzano sempre più precise e multiformi le paure che attanagliano i nuovi paesi membri dell'Unione. Tra esse:
- la paura di divenire soggetti di nuove egemonie europee;
- la paura del ruolo non-paritario nell'ambito della politica internazionale e della cultura e la diffidenza con cui i piccoli stati vedono una possibile nuova dominazione culturale da parte dei grandi centri transnazionali;
- la paura che l'informazione culturale possa esser unidirezionale con la conseguenza della perdita di identità culturali nazionali, regionali;
- il senso di ineguaglianza e di una nuova marginalizzazione. La maggior parte dei nuovi paesi membri non è ricca né politicamente stabile. Questo fatto apporta un elemento significativo nel cambiamento dell'equilibrio interno all'Unione, il rapporto tra il primo nucleo dei paesi europei, considerati grandi e potenti, e le nuove periferie, o semiperiferie europee. L'essere al centro dell'Europa o ai suoi margini, in tutti i sensi, rimane uno dei principali nodi del futuro dibattito europeista;
- la paura di "pagare troppo" per essere ammessi nel seno della Fortezza - disoccupazione, ineguali posizioni di partenza per le politiche economiche competitive, partecipazione obbligatoria al finanziamento delle forze militari transnazionali...
La lista, solo accennata, potrebbe essere molto più lunga. Aggiungiamo ancora: la preoccupazione per un'identità europea non definita e non discussa sufficientemente, l'assenza di dibattito sulle sue radici culturali, sui valori europei e una generale assenza di visibilità degli obbiettivi comuni, quelli etici, non solamente economici. Inoltre, non manca la pressione del "grande fratello" sulla politica estera del continente, una politica che fa distinzione tra i "bad europeans" e i "good ones" tra la "vecchia" e la "nuova" Europa, - divisioni che sicuramente non aiutano a forgiare un'autentica autonomia del pensiero politico europeo.
Ma vediamo come queste problematiche vengono riflesse nelle parole dei suoi cittadini, o meglio, dei neo-inquilini della Casa Europa.
Pochi giorni prima del primo maggio 2004, giorno dell'entrata ufficiale nell'Unione Europea dei 10 nuovi stati membri, il "Corriere della sera" ha pubblicato le interviste fatte a giovani provenienti da queste aree. Le domande erano poche e significative per delineare lo spirito con cui si stava vivendo il grande veglione europeo da parte delle giovani generazioni. Alla domanda "Che cosa cambierà con l'ingresso in Europa?", i suoi futuri cittadini hanno risposto:
Dana, Repubblica Ceca: " Per l'economia sarà un vantaggio. Ma credo che la Repubblica Ceca perderà la sua identità, le sue tradizioni, alla fine si trasformerà in una provincia della Germania. Non avevamo scelta: dicendo no all'Europa, la nostra economia sarebbe morta di nuovo, come ai tempi del comunismo".
Mari, Estonia: "I giovani avranno più possibilità di lavoro. E andranno a cercare stipendi più alti negli altri paesi dell'Unione. L'Estonia si svuoterà. Qui rimarranno solo i vecchi, almeno all'inizio. Gli estoni, nazionalisti come sono, dopo un po' ritorneranno. Ma i russi se ne andranno definitivamente. I prezzi saliranno. I ricchi diventeranno più ricchi, i poveri più poveri. Eppure, questa seconda transizione è necessaria. L'Estonia è un piccolo Paese ex sovietico, da solo non c'è la può fare. Non dobbiamo preoccuparci di perdere la nostra identità".
Alla domanda: "Che idea ha dell'euro?", Mari risponde: "Non mi piace. Voglio la mia moneta".
Zita, Lituania: "Penso che avremo più opportunità di studio, e poi finalmente potremmo viaggiare senza bisogno del visto. Però c'è il rischio di perdere le nostre tradizioni, la nostra lingua, noi siamo un paese piccolo".
Kamila, Polonia: "Non credo ci saranno vantaggi immediati né per me, né per il mio paese".
Normnunds, Lettonia, "Finalmente non dovremo più esibire il passaporto per varcare il confine. Far parte della UE significa anche avere molti aiuti economici, quindi nuove strade. Però sono preoccupato. Negli ultimi dieci anni la Lettonia è cambiata radicalmente. Ho paura che si stiano facendo le cose troppo in fretta".
Peter, Ungheria: "Ci saranno vantaggi e svantaggi. Intanto negli aeroporti non dovrò più subire la vergogna di passare i controlli con gli extracomunitari, neanche fossi cinese. Io mi sono sempre sentito ungherese ed europeo e credo che il primo maggio venga riconosciuto qualcosa che è già scritto nella nostra storia. Però la gente è spaventata, teme che l'Ungheria perderà la propria identità e conterà poco. Ha paura che saremo sì in Europa, ma come paese di serie B". (15)
Le risposte di questi giovani manifestano un entusiasmo smorzato, tiepido, e una consapevolezza delle difficoltà, una conferma dei timori diffusi tra la gente comune. Neppure gli "esperti" si scostano molto da simili giudizi. Ai timori sull'identità nazionale a rischio, si aggiungono angosce sui destini delle minoranze etniche separate in aree europee distinte, nella "prima" e nella "seconda" Europa. Come per esempio dimostra la minoranza ungherese che, con lo spostamento del confine dell'UE, si trova allontanata ulteriormente dalla madre patria, come avviene con la minoranza italiana dell'Istria, la penisola che nella sua storia di dominazioni varie non è mai stata divisa al suo interno e separata da un confine come quello attuale di Schengen, come capita alla minoranza russa nei paesi baltici di cui nessuno si cura. E che dire degli altri popoli e paesi, di coloro che sono rimasti lontani dal processo di inclusione nell'organismo europeo a cui loro, comunque, culturalmente e storicamente, appartengono?
Per questo, secondo il sociologo croato, l'Europa prenderà tutto ciò che ha valore, noleggerà, sfrutterà ed estenderà i risultati della sua restaurazione conservativa. In questo senso, essa riporterà l'ordine anche tra i paesi che sono attualmente esclusi dall'allargamento, detterà loro i propri dettati, indicherà loro la via. Tutti questi paesi (si parla della Croazia, della Bosnia ed Erzegovina, della Serbia, del Montenegro, della Macedonia come dell'Albania, ora anche del Kosovo, della Romania, della Bulgaria e fino ad un certo punto pure della Turchia, e della Grecia - nonostante quest'ultima sia già "dentro"), condividono la stessa sorte; la sorte del ventre molle del continente, del meridione arretrato dell'Europa. "L'Europa si è rapportata in modo particolare verso tutti i popoli e le comunità che abitano i territori dell'ex Jugoslavia, lo ha fatto in passato come lo fa oggi e lo farà anche in futuro, sempre allo stesso modo: con disprezzo, non preoccupandosi di finezze per distinguere tra le identità di serbi, croati, sloveni, bosniaci, o bošnjaki... L'Europa non riesce a ricordare gli elementari fatti geografici di queste terre. Non sa quasi niente della storia del proprio oriente e del suo meridione, non conosce la storia dei Balcani. Conosce parzialmente soltanto la storia della Grecia antica, il luogo dove nacque la sua stessa identità e per questo è la sua eterna debitrice".
Il sociologo croato Stipe Šuvar ripropone la domanda che il grande umanista e scrittore degli slavi del sud, Miroslav Krleža, aveva sollevato tre decenni fa: "Che cosa siamo noi per l'Europa e che cosa essa significa per noi?" Nel tentativo di formulare la risposta, Šuvar cita Pierre Bourdier secondo il quale l'Europa sta attraversando l'epoca della restaurazione del neo conservativismo. Ma, diversamente dai tempi passati, essa oggi non glorifica l'aggressività bellica né i concetti di sangue e suolo. "Essa conferma e glorifica il potere del mercato finanziario e, all'interno di questo, quel tipo di capitale radicale che riconosce legalmente soltanto il massimo profitto. Il che significa il non celato e irrefrenabile capitalismo che, con l'instaurazione dei modelli avanzati di potere - come lo sono il management e le tecniche di manipolazione - razionalizza e raggiunge massimi livelli di efficacia.". (16)
Un giudizio aspro, per molti versi rappresentativo degli umori della classe degli esclusi. Ma Šuvar non è antieuropeista; egli è consapevole che non vi è altra strada da seguire. Del resto afferma: "Il destino che avrà l'Europa, sarà anche il nostro". E per accostare questi destini, bisogna imparare a pensare e a comportarsi all'europea. Un tema che necessariamente aprirebbe non una parentesi, ma un dibattito vasto e articolato nel seno di un'Europa che ancora deve imparare la grammatica del superamento delle vecchie e nuove divisioni, ruderi ereditati da un mondo bipolare.
Come i giovani europei intervistati, come il filosofo ungherese Ferenc Feher, così anche la stragrande maggioranza dei cittadini che si troveranno ancora seduti a tempo indeterminato nell'affollata sala d'aspetto d'Europa sanno che la scelta è unidirezionale. E non si può negare che la scelta dei cittadini dell'est, del centro e del meridione europeo, di optare per la democrazia, non contenga elementi di una scelta esistenziale. Loro sono consapevoli che non stanno vagliando un qualche arrangiamento politico, ma la libertà. Sanno pure che prediligendo qualcos'altro avrebbero perso, assieme alla libertà, ciò che sono e ciò che vogliono diventare.
Note:
1. The International Society of Political Psychology, 25th Annual Silver Jubilee, July 16-19, 2002
2. Testimonianza di Ingolf, musicista di Berlino Est in: Alessandra Bartali e Tania Masi, Berlino, ed. Clup guide, Novara, 2005, p. 45
3. Vesna Pusić, Utopie, in Erasmvs, no. 6, Zagreb, 1994, pp. 31-39, (traduzione M.R.)
4. Vesna Pusić, ibidem, p. 36 (Traduzione M.R.)
5. Ferenz Feher, 1989. - Dekonstrukcija političkog monizma, in Erasmvs, Zagabria 1994. p 59. (Traduzione M.R.)
6. Eva Hoffman, Exit to History, Penguin Books, New York, London, 1993, p. 19. (Traduzione M.R.)
7. György Konrád, To Cave Explorers from the West (Agli esploratori delle caverne che vengono dall'Occidente), citato in Slavenka Drakulić, "Come siamo sopravvissute al comunismo riuscendo perfino a ridere", il Saggiatore, Milano, 1994, pp. 7-8
8. Alessandra Bartali, Tania Masi, Berlino, ed. Clup guide, Novara, 2005, p. 43
9. Vedi in: Gisela Ehle, East-German & West German Identities; ought there to be a conflict? in "Systems in Transition", Reder 2003, Berlino/Budmerice 2003, pp. 99-101
10. Anche dalla Hoffman possiamo trovare lo stesso concetto. Quando parla del nuovo rapporto verso i libri e della posizione degli scrittori nella società polacca in trasformazione, l'autrice nota una evidente irritazione diffusa tra gli scrittori affermati che assistono all'inondazione del mercato librario in Polonia da pubblicazioni considerate "trash" dell'Occidente e dell'immondezzaio della parola scritta da cui sono sommersi, considerando se stessi migliori, più seri nella produzione letteraria e percepiscono il proprio ruolo simile agli "impoveriti custodi di una coscienza nobile". Vedi in E. Hoffman, op. cit. p. 16e
11. Alessandra Bartali, Tania Masi, Berlino, ed. Clup guide, novara, 2005, p. 79
12. Vedi in: Alessandra Bartali, Tania Masi, op. citata, p. 45
13. Vedi in: Patrizia Dogliani, Berlino capitale, in Storica, 17/2000, Donzelli Editore, p. 54
14. Patrizia Dogliani, op. cit. p. 36
15. Tutte le interviste sono state riprese dal "Corriere della sera", 28 aprile 2004, pp. 14-15
16. Stipe Šuvar, Hrvatski karusel, Razlog, Zagreb, II edizione 2004, p.572. (Traduzione M.R.)
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