César Campoy, scrittore e giornalista originario di Valencia, Spagna, è tra i principali esperti della regione balcanica del suo paese. Lo abbiamo incontrato nella sua città natale prima che ripartisse per i Balcani. Il suo "Odissea balcanica" uscito in Spagna lo scorso aprile è già alla seconda edizione
“As far as I can remember, I always wanted to be Yugoslavian” è la sua affermazione prediletta calcata sui copioni cinematografici della sua adolescenza che, in sapor di nostalgia per qualcosa che non c’è mai stato ma è stato coltivato costantemente per tutta la vita ed estratto dal cinema, dalla musica e dalla letteratura. È proprio il cinema l’incipit del lungo viaggio di una vita che César Campoy compie a partire dalla fine degli anni Novanta in paesi già divisi, intersecandosi spesso con le attività della cooperazione spagnola che per la prima volta si sperimentava a livello statale in tale portata, emergendo a sua volta dagli sforzi della ricomposizione e alimentando, in casa e altrove, tanta voglia di riscatto.
Il viaggio del suo romanzo Una odisea balcánica. Tras los pasos de ‘La mirada de Ulises’ (Báltica Editorial, 2024) inizia proprio a Valencia con i piedi profondamente ancorati al mar Mediterraneo e, in particolare, alla locale mostra del cinema “Mostra de València-Cinema del Mediterrani” grazie alla quale lo scrittore sin da giovanissimo ha iniziato ad appassionarsi del cinema che apriva una finestra sui Balcani, immaginati e desiderati, percorsi nelle mappe cartacee come un vero Oriente da raggiungere e da vivere con tutta l’intensità di un luogo ideale che si fa realtà.
Il libro, pubblicato in lingua spagnola ad aprile 2024, è già alla seconda ristampa dopo aver contato su un significativo riscontro tanto dalla critica quanto da parte del pubblico.
Il viaggio intimo dalla Grecia all’Albania, dalla Macedonia del Nord alla Bulgaria, dalla Romania alla Bosnia Erzegovina passando per la Serbia, narrato con numerosi riferimenti alla letteratura e al cinema degli ultimi trenta anni, calca fedelmente il percorso de “Lo sguardo di Ulisse” (To vlemma tou Odyssea, 1995) di Theo Angelopoulos, l’opera cinematografica che, tra tutte quelle citate con dovizia di particolari da Campoy, ha ispirato la sua passione e avviato una profonda ricerca letteraria e filosofica che costituiscono l’ossatura del libro.
L’odissea evocata nell’opera si sovrappone al viaggio omerico del film e lo stesso Campoy si mette fisicamente in marcia ricostruendo tappa per tappa il viaggio del protagonista, interpretato da Harvey Keitel, e sfidando le difficoltà di connessione del presente tra i luoghi di pancia, meno o per nulla visibili negli itinerari turistici, a partire da quella che definisce la “Grecia intestina”, addentrandosi nella penisola e nelle sue propagazioni da Florina a Korçë, da Bitola a Plovdiv, e proseguendo attraverso i Balcani orientali per poi tornare indietro alla volta di Sarajevo.
La Bosnia Erzegovina rappresenta ancora oggi il suo luogo di elezione più intimo e indiscusso ed è quello che segna le andate e i ritorni della storia personale di Campoy e dei percorsi inediti nei quali aspira ad accompagnare lettrici e lettori.
Abbiamo avuto l’occasione di incontrarlo nella sua città natale, a Valencia, poco prima che tornasse nei Balcani e di approfondire alcuni aspetti della sua esperienza e della sua opera.
Quando nel tuo libro pensi e scrivi che “sognavi di essere jugoslavo” fin da quando eri piccolo, come pensi che sarebbe cambiata la tua identità e come si è evoluta dopo la dissoluzione della Jugoslavia?
Intuisco che, se fossi nato negli anni Settanta del secolo scorso in Jugoslavia, non mi sarebbe costato molto, da bambino, provare una profonda meraviglia nei confronti del “titoismo” e provare a diventare un pioniere modello. Da adolescente, però, avrei sicuramente seguito la cultura critica nei confronti di quella burocrazia e assorbito gli elementi di maggior sofferenza soffrendo per le contraddizioni. La mia “identità jugoslava” credo che, ancora oggi, sia in qualche modo intatta, ma, a partire dall’epoca immediatamente successiva allo scioglimento della Repubblica Federale di Jugoslavia, mi sono sentito molto più vicino alla realtà, al paesaggio e alla cultura della Bosnia Erzegovina.
Pensi che oggi si possa ancora parlare di un cinema balcanico speciale e specifico, come quello degli anni che descrivi nel tuo libro?
Senza dubbio, credo che esista e che sia ancora estremamente vivo. Lasciando da parte il cinema commerciale, continuano ancora oggi a essere firmate opere davvero rischiose che ritraggono perfettamente, e con una filosofia molto personale, una società e un sentimento generale riconducibile ai diversi popoli jugoslavi. Se parliamo del termine “Balcani” nel suo senso più ampio, basta dare uno sguardo alla produzione cinematografica emersa in Romania negli ultimi decenni che ritengo offra elementi preziosi e fortemente caratterizzanti.
Abbiamo parlato molto del ruolo della Spagna anche a partire dalla tua esperienza nel mondo della cooperazione internazionale. Il tuo libro affronta a più riprese il tema dei confini e rende omaggio nel senso più ampio e completo ad Angelopoulos e alla necessità, più che al posizionamento, di rinnegare i confini per tornare alle origini, per ritrovare la propria identità e concepire una idea concreta di casa, di ritorno, di legame tra passato e futuro, come ami ricordare nella citazione “quante frontiere dobbiamo attraversare per arrivare a casa” di Marcello Mastroianni in un’altra opera di Theo Angelopoulos, “Il passo sospeso della cicogna”. Come viene percepita l’idea di confini millimetrici che cambiano continuamente dal punto di vista della Spagna, un paese i cui confini sono rimasti stabili per secoli, il cui territorio corrisponde in gran parte alla penisola iberica ed è per lo più delimitato da barriere naturali, come il mare, che costituisce oltre il 70% dei suoi limiti? È una situazione così diversa da quella dei Balcani, dalla quale, come dici tu, sei così ossessionato…
Sì, è tutto completamente diverso e questa grande difficoltà di percezione è parte integrante della mia sfida costante di comunicazione anche verso la mia comunità di origine. Credo che solo coloro che mostrano un genuino interesse verso la regione balcanica o compiono serie ricerche siano in grado di analizzare questa danza di confini con un minimo di obiettività ed empatia. Negli ultimi decenni la narrativa esterna ha spesso frainteso e trasmesso in maniera ampiamente strumentale questa apparente instabilità. Soprattutto perché se non si conosce molto bene il territorio è difficile assimilarsi. Lo ammetto. Direi addirittura che viene visto come qualcosa di esotico e, quasi, arcaico, tribale, ma il viaggio interno consente di comprendere la dimensione reale anche di quegli spigoli, di accarezzarla e portarla con sé, nel sogno e nel racconto.
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