Una storia borghese ambientata in Kosovo; il dramma di Daria, diciottenne tossicodipendente in Romania; l'ascesa e la fine di una carriera criminale in Ucraina. Molti i film dell'est passati alla recente Mostra del cinema di Venezia
Con un premio alla Romania, si è conclusa lo scorso 11 settembre la 78° Mostra del cinema di Venezia. Il Leone del futuro per il miglior film d'esordio è andato al romeno “Imaculat” che ha pure vinto le Giornate degli autori, la sezione nella quale era incluso. È il primo film da registi della sceneggiatrice Monica Stan e del direttore della fotografia George Chiper-Lillemark. La diciottenne tossicodipendente Daria accetta di essere ricoverata in un centro di rieducazione perché si faceva di eroina. La ragazza ha ceduto alle pressioni dei genitori per curarsi dopo che il suo fidanzato Vlad è stato condannato al carcere per quattro anni. Dentro la struttura la protagonista ha il bisogno di poter usare il telefono che le è stato sequestrato all'ingresso, così finisce in una dinamica di gioco pericoloso con gli altri ospiti, quasi tutti maschi e più grandi di lei, un gruppo variegato al cui vertice c'è il boss Spartac. Più tardi arriva anche Costea, amico di Vlad, che l'ha inviato a controllare la ragazza e la situazione si complica.
“Imaculat – Immaculate” è un dramma di sicura presa, tutto girato con inquadrature strette con camera a mano sulla protagonista e i personaggi che interagiscono con lei. È molto bello ed efficace l'inizio sul primo piano di lei a colloquio con l'assistente sociale e la madre, che parlano e la stimolano ma non si vedono. Da subito si stabilisce una relazione tra lo spettatore e una ragazza che non si capisce quanto sia sfuggente, ambigua, accondiscendente o confusa: per tutto il film non è mai del tutto chiaro cosa voglia e se quello che dice o fa corrisponda a ciò che vuole. Non si può che concordare che sia “diversa”, come tutti le ripetono. Il film non ha pretese sociologiche, non si sofferma troppo sulla tossicodipendenza, sui metodi di cura, ma vuole rendere soprattutto l'esperienza e la vita di Daria tra molte spinte e sollecitazioni, e in questo risulta riuscito.
Nel concorso per il Leone d'oro, vinto un po' a sorpresa dal francese “L'événement” (in Italia uscirà il 4 novembre con il titolo “La scelta di Anne”) di Audrey Diwan, si sono fatti apprezzare un film ucraino e uno russo, anche se non hanno ottenuto riconoscimenti.
Rivelatosi due anni fa proprio a Venezia con “Atlantis” (che vinse il premio della sezione Orizzonti), l'ucraino Valentyn Vasyanovych è tornato in “Reflections – Vidblysk” a parlare della guerra che ha lacerato il suo paese. Siamo nel 2014 e il chirurgo Serhij compie degli interventi su vittime della guerra senza riuscire a salvare loro la vita. Andato al fronte, a un posto di blocco è fermato, fatto prigioniero e poi torturato dai filorussi. Riesce a sopravvivere, ma assiste alle morti di altri malcapitati per il sadismo di questi soldati ed è chiamato a constatarne il decesso. I cadaveri sono quindi eliminati dentro un forno crematorio mobile nascosto in un camion di aiuti umanitari russi, in una delle scene di più forte impatto del film. Successivamente Serhij è liberato nell'ambito di uno scambio di prigionieri e torna a casa, ma il rientro alla normalità non è facile, basti dire, per rendere la situazione di violenza diffusa, dei cani liberi che aggrediscono le persone nel parco. Il protagonista vive con la figlia Polina in un appartamento con una grande finestra dalla quale si domina la città. Un giorno un uccello sbatte contro la vetrata e cade, la ragazzina vorrebbe soccorrerlo e salvarlo, gli dice “tu sei un medico”. Ma il parallelo tra il pennuto e le vite delle persone coinvolte nel conflitto è implacabile. Vasyanovych, che si occupa anche della fotografia, conferma lo stile del film precedente, con lunghi piani sequenza e inquadrature frontali, spesso fisse. Alcune scene sono difficili da sostenere, le violenze della prigione mostrate nella loro crudezza (anche con un trapano nella gamba del prigioniero), il regista mostra spesso atti di crudeltà gratuiti dei filo russi.
Molto diverso ma a sua volta potente e meritevole di attenzione è il russo “Kapitan Volkonogov bezhal – Captain Volkonogov Escaped” di Natasha Merkulova e Aleksey Chupov, anch'essi già premiati in Orizzonti per “The Man Who Surprised Everyone”. Un film sul terrore staliniano con uno stile visivamente molto ricco, un po' fumettistico e quasi post-moderno pur collocato nel 1938.
Siamo a Leningrado e nella scena iniziale si vedono giovani ufficiali dell'anti-spionaggio giocare a pallavolo in un ricco salone, finché la palla non resta impigliata tra i cristalli di un prezioso lampadario. Gli uomini alternano il lavoro alle attività ginniche nei locali della sede, dove si respira un senso di cameratismo, con gli agenti che collaborano e si provocano scherzosamente.
Intanto si interrogano e torturano i sospettati di attività antisovietica, di spionaggio o terrorismo. Basta poco per finire accusati e con le torture si riescono a estorcere confessioni anche agli innocenti.
All'improvviso il capitano del titolo, stimato da tutti, scompare nel nulla, nessuno sa dove sia, ma i superiori vogliono rintracciarlo a tutti i costi, cercano la sua fidanzata e creano squadre per ritrovarlo. “Captain Volkonogov Escaped” è un film frenetico, muscolare, che sembra guardare al cinema d'azione americano eppure è molto russo nello spirito. Non importa l'esattezza della ricostruzione storica degli ambienti, importa rendere bene il clima di terrore nell'Unione sovietica staliniana, la cupezza anche se i colori sono accesi. Volkonogov si è portato via il fascicolo riguardante gli innocenti uccisi e vuole andare dai parenti di ciascuno per chiedere perdono: dice di voler andare in paradiso e il suo è anche un percorso di espiazione. L'episodio che resta più in mente è forse quello con la bambina, figlia di un torturato che non aveva confessato neanche ai franchisti durante la guerra di Spagna. Da notare l'utilizzo della canzone popolare “Poljuško Pole” che torna spesso e il dirigibile che passa sopra la città. Ottima la prova del protagonista Yurij Borisov, l'attore emergente (tra l'altro già in “Scompartimento n. 6” premiato a Cannes) del cinema russo odierno.
Ottima notizia la presenza nella sezione Orizzonti dell'ucraino Oleg Sentsov con il suo “Nosorih – Rinoceronte”. Il regista è purtroppo noto, più che per il suo film “Gamer” del 2011, per essere stato a lungo incarcerato dalla Russia per motivi politici dopo l'annessione della Crimea nel 2014 e scarcerato solo nel settembre 2019, ricevendo nel frattempo il premio Sakharov nel 2018. Durante i giorni della Mostra, Sentsov è pure intervenuto al Global Campus on Human Rights incontrando i giovani partecipanti all'iniziativa. Il suo “Nosorih” (“Rhino” è il titolo internazionale) è un bel poliziesco incentrato su un ragazzino nei primi anni '80 dell'epoca Breznev che scala la criminalità di Kiev nel decennio successivo. L'inizio è strepitoso con un apparente lungo piano sequenza che si muove attraverso le stanze e il tempo a raccontare alcuni episodi e momenti che rendono l'ambiente in cui cresce Vova e l'atmosfera di quegli anni. Ne emerge un bambino che non ha paura di fare a botte e abituato ad avere a che fare con la violenza. Dopo questa sorta di preludio, il film cambia stile per assumere una narrazione per flash-back. Siamo vicini a nostri giorni e Nosorih (il soprannome che ha assunto) confessa a un uomo misterioso i suoi trascorsi. Il protagonista crescendo costituisce una sua gang per il recupero crediti e varie altre attività fuori legge, facendosi conoscere e temere ma procurandosi anche dei nemici. Nel '95 l'uomo sposa Maryna, dalla quale ha una figlia, ma che continuerà a tradire finché lei se ne va di casa. Moglie e figlia muoiono in un incidente stradale che Rhino è convinto essere un attentato e vuole vendetta. Seguirà anche in questo caso una ricerca di espiazione e di perdono per quanto fatto. Sentsov riesce sia a rendere il tormento interiore del protagonista, seguendone il percorso classico di ascesa criminale e caduta in maniera abbastanza originale, sia la situazione magmatica seguita alla caduta dell'Urss che lasciava spazi aperti alla delinquenza.
Una delle belle sorprese della Mostra è “Vera Dreams the Sea – Vera andrron detin” della kosovara Kaltrina Krasniqi, una coproduzione tra Kosovo, Albania e Macedonia del nord. La Vera che sogna il mare è una sessantenne che lavora in televisione come interprete della lingua dei segni, che aveva imparato perché la madre era sorda. È il compleanno del marito Fatmir, giudice molto noto che compie 65 anni. È contenta perché ha saputo che la casa che possiedono al villaggio si è rivalutata per il passaggio della nuova autostrada Pristina – Skopje: la sua intenzione è venderla per sistemare alcune cose, comprare un appartamento per la figlia Sara attrice e fare una vacanza al mare. La donna prepara per festeggiare, si ferma a fare la spesa e, quando giunge a casa, trova il marito morto. Chiama in aiuto il giudice Basri, collega e amico del marito.
Dopo il funerale si presenta Ahmet, parente del villaggio, che le chiede di firmare l'atto di cessione della casa a lui come gli aveva promesso Fatmir. Lei è sorpresa, non sa nulla, e rifiuta, ma l'uomo insiste e gli anziani del villaggio stanno dalla sua parte. La situazione sfuggirà al controllo, con progressivi ricatti, pedinamenti e minacce, con Vera che si ritrova sola e non vuole cedere. Intanto emerge il vizio del marito per il gioco d'azzardo e non si capisce quanto la donna sapesse o non volesse sapere. E la figlia Sara la accusa di essere sempre restata in silenzio.
“Vera Dreams of the Sea” è un film teso, breve, essenziale, senza fronzoli, un po' diverso da altre opere kosovare degli ultimi tempi, per una volta una storia borghese. Si vede un Kosovo in rapida trasformazione, con tanti cantieri e soprattutto l'autostrada, ma un Kosovo ancora con donne contro uomini o viceversa, questione che torna in tante pellicole. In questo caso la Krasniqi si concentra sul fatto che nei villaggi le donne non potevano ereditare le case.
L'opera si fa apprezzare anche per le scelte della regista debuttante. In particolare restano nella memoria due scene: il drammatico ritorno a casa di Vera, che fa intuire la causa della morte di Fatmir; la visione di un video rivelatore all'interno del bar dei sordi che non si rendono conto di quanto sta accadendo.
Interessante in Orizzonti anche “Miracol”, terzo film del romeno Bogdan George Apetri che si era segnalato con “Periferic” (2010). Un film diviso in due parti quasi speculari, a raccontare due momenti della stessa storia con un approccio più spirituale l'uno e con uno sguardo più laico l'altro. Cristina ha 19 anni e da pochi mesi è in prova in un monastero in campagna. Una mattina la giovane sgattaiola fuori dal convento, con l'aiuto di una consorella con la quale ha organizzato l'uscita, e raggiunge il taxi che la aspetta fuori e dovrà portarla in città. Lungo il percorso i due fanno una sosta, perché la ragazza vuole sostituire la veste da religiosa con abiti civili. Cristina ha qualcosa di urgente da risolvere che non può confidare a nessuno, gira la città, cerca un uomo senza esito e giunge in ritardo all'appuntamento con il tassista che la dovrebbe riportare indietro. La giovane non fa però ritorno al monastero e il protagonista della seconda parte è il quarantenne ispettore Marius Preda, che indaga sull'accaduto. L'inquirente non riceve molta collaborazione dalle suore, che poco sanno della scomparsa, ma ha le idee chiare, torna sui luoghi del viaggio di Cristina ed è convinto dell'identità del colpevole, non resta che riuscire a farlo confessare. “Miracol”, dove il titolo prepara a qualcosa di non spiegabile razionalmente, è composto di piani sequenza, con lunghi dialoghi, anche con domande che restano senza risposte, e pure allo spettatore restano dubbi e questioni che dovrà colmare con la propria sensibilità.
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