Sebbene le disuguaglianze di genere riguardino tutte le dimensioni della vita delle donne, il lavoro è uno dei settori più colpiti. Vale anche per le donne impiegate nel settore dei mezzi di comunicazione. Un'analisi della situazione in Italia con uno sguardo anche al sud-est Europa
(Originariamente pubblicato sul portale ingenere il 6 ottobre 2022)
L’Italia si colloca nella fascia intermedia per i rischi legati al pluralismo dell’informazione nella classifica del Media Pluralism Monitor, al sedicesimo posto su trentadue. Il MPM prende in esame varie dimensioni tra cui il tema dell’accesso delle donne ai media, analizzato nell’area dell’inclusione sociale. Solo tre paesi in Europa rientrano nella fascia bassa di rischio per l’indicatore “accesso delle donne ai media”. L’Italia, così come gran parte del sud e sud-est Europa, è invece ad alto rischio.
Come sottolineato nel rapporto elaborato dal Centro per il pluralismo e la libertà dei media, sono poco più della metà i paesi nei quali il servizio pubblico ha istituito una politica di genere e in cui le posizioni dirigenziali sono equamente distribuite. Sebbene in Italia l’accesso delle donne ai media sia migliorato, il cambiamento sembra essere legato più alle più recenti nomine in posizioni di vertice nella RAI che a trasformazioni sostanziali.
Sono molte le dimensioni da prendere in considerazione quando si parla di inclusione di genere nei media. Tra queste c’è sì la presenza delle donne ai livelli dirigenziali, ma anche l’assenza di divari salariali, la possibilità di occuparsi di ciò che si vuole e senza subire la cosiddetta “segregazione orizzontale” cioè l’impossibilità di trattare temi come la scienza, la politica o l’economia, ma anche l’essere interpellate come fonti di notizie scientifiche, l’assenza di narrazioni stereotipate quando si parla di violenza di genere e l’assenza stessa di violenza nei confronti delle giornaliste. Tutte queste e altre dimensioni sono analizzate dal CMPF e da altri istituti per mettere in luce le varie dimensioni del problema, con risultati non esattamente incoraggianti.
Considerazioni e dati sull’inclusione di genere nei media
Secondo un altro rapporto, il sesto del Global Media Monitoring Project, a livello mondiale si stima che ci vorranno almeno altri 67 anni per colmare il divario di genere nei media tradizionali. La ricerca sottolinea come la pandemia abbia acuito il divario di genere tra gli esperti anche in Italia. Questo è particolarmente evidente nel campo della scienza e della salute, dove le donne rappresentano solo l’11% delle persone interpellate. Lo sguardo al sud-est Europa ci permette di argomentare come la situazione sia simile in Bulgaria, ma non in Romania, dove la percentuale è del 46%. Gli altri due settori in cui la presenza di donne è scandalosamente bassa in Italia sono la politica (25%) e l’economia (14%). In entrambi i settori, Bulgaria e Romania fanno meglio dell’Italia.
Anche le narrazioni stereotipate quando si parla di violenza passano per la sottorappresentazione delle donne come fonti. Le donne continuano infatti ad essere consultate più perché possono raccontare le proprie esperienze personali che per fornire un’analisi del problema.
Un altro indice elaborato dal Global Media Monitoring Project che ben descrive il punto in cui ci troviamo è il GEM, che misura la presenza di donne e uomini nei media, la loro visibilità e la loro voce. In una scala da -100 (solo uomini nei media) a +100 (solo donne nei media), l’Italia si attesta a un allarmante -49. Per riprendere il parallelismo con il sud-est Europa, la Bulgaria è a -28,5 e la Romania a -26,5. Eppure, sebbene in questi paesi ci sia una situazione migliore in termini di presenza fisica, questo non significa che le giornaliste non siano oggetto di discriminazione. Le ragioni per cui le donne sono più presenti nei media dei paesi dell’est Europa rispetto all’Italia vanno fatte risalire all’esperienza dei regimi socialisti quando la presenza delle donne nel mondo del lavoro era fortemente incoraggiata. Oggi invece, di fronte alla crisi del settore, gli uomini preferiscono occuparsi di altro, come emerge in una ricerca condotta da Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa.
Guardando ai diritti professionali, la sottorappresentazione delle donne nelle posizioni di vertice è un altro aspetto rilevante. Una ricerca condotta dall’Istituto europeo per l’uguaglianza di genere (EIGE) mostra che le donne in Italia costituiscono circa un decimo del personale collocato in posizioni decisionali, molto meno rispetto alla media UE del 30%.
Altre problematiche sono poi legate alla maternità per le donne nella condizione di freelance con la precarietà ad essa associata, come è stato evidenziato dalla presidente di GVpress durante una recente missione in Italia del consorzio internazionale Media Freedom Rapid Response.
Infine, il divario salariale si registra soprattutto nelle posizioni più alte, in età più avanzata e durante i primi anni lavorativi. Nel 2017 lo stipendio delle giornaliste regolarmente occupate è stato in media di circa 52.000 euro, contro i 65.000 degli uomini.
Sicurezza fisica e minacce online alle giornaliste
Gli attacchi e le intimidazioni nei confronti dei giornalisti e delle giornaliste sono un fenomeno in crescita in Italia, tanto che nel 2021 sono stati denunciati 232 episodi di violenza, con una crescita del 42% rispetto al 2020.
Ci sono alcune categorie di minacce che vedono le giornaliste più esposte rispetto ai loro colleghi. Tra queste, gli attacchi online. Come sottolinea il Media Pluralism Monitor, all’assenza di una legge che possa regolamentare le piattaforme digitali si affianca un livello basso di alfabetizzazione mediatica e competenze digitali da parte degli utenti, e questo fa sì che gli attacchi online restino così diffusi ed impuniti.
Gli attacchi online assumono forme specifiche basate sul genere: le giornaliste sono attaccate innanzitutto per il fatto di essere donne, e poi per il loro lavoro. Dalla sopracitata ricerca di OBC Transeuropa è emerso che sebbene nessun argomento sia esente da rischi, parlare di questioni sociali e diritti umani - includendo in queste categorie le migrazioni e le questioni di genere - aumenta la probabilità di essere insultate o aggredite.
Le conseguenze di questi episodi sono molte e devastanti sia per la vita professionale che per quella privata delle giornaliste: tra queste l'allontanarsi dai social, il pubblicare articoli in modo anonimo, fino alla decisione di abbandonare la carriera. Questi attacchi sono spesso sottovalutati per timore di ritorsioni professionali. Nonostante siano molte le redazioni schierate dalla parte delle giornaliste, non è raro che venga chiesto alla professionista di smettere di occuparsi di una questione quando riceve un attacco perché ritenuta incapace di affrontare le conseguenze del proprio lavoro.
Inoltre, accade di frequente che le donne siano molestate nelle loro stesse redazioni, come dimostra un’indagine condotta dall’FNSI nel 2019. L’85% delle giornaliste intervistate ha dichiarato di aver subito molestie sessuali nel corso della loro vita lavorativa. Il 19,3% ha ricevuto richieste di prestazioni sessuali mentre cercava lavoro, il 13.8% per progredire nella carriera. Un aspetto significativo è che oltre la metà degli episodi sono avvenuti in redazione e solo nel 18,4% dei casi qualcuno è intervenuto.
Cosa andrebbe fatto
Purtroppo le disuguaglianze di genere non sono una novità, tantomeno nei media. Eppure, sono proprio le giornaliste a portare alla luce il più delle volte le storie di chi ha meno voce, storie di diritti e di integrazione. E anche per questo ricevono attacchi, fisici e online. Fortunatamente, le reti di supporto sono sempre di più. La scorta mediatica è ormai uno strumento consolidato per mettere al riparo la giornalista e combattere il senso di isolamento che questi episodi provocano.
I dibattiti sui divari di genere nella professione sono sempre più comuni nelle redazioni, nelle associazioni di categoria e nelle istituzioni, anche grazie alla spinta proveniente dall’Europa (si vedano ad esempio la Raccomandazione della Commissione europea del 2021 o la Risoluzione del Parlamento europeo del 2020).
Ma cosa si può fare per promuovere l’uguaglianza di genere nei media? Innanzitutto, andrebbe promossa una formazione obbligatoria sui temi legati al genere per gli operatori dei media per combattere la tolleranza rispetto agli abusi e la scarsa consapevolezza della condizione delle giornaliste.
Riprendendo in conclusione le raccomandazioni del Media Pluralism Monitor, lo Stato e gli attori dei media dovrebbero promuovere la parità di genere nelle redazioni e nella governance, oltre a una pari presenza nella loro offerta. Le istituzioni pubbliche dovrebbero promuovere politiche di alfabetizzazione mediatica per contrastare l’odio online. Infine, dovrebbe essere incoraggiata una maggiore assunzione di responsabilità da parte delle piattaforme online.
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