"Il progetto Lazarus" è l'ultimo libro di Aleksandar Hemon, pubblicato in Italia da Einaudi. Un racconto che fa la spola fra i pogrom che segnano gli albori e il crepuscolo del Novecento. E il lettore rimane sospeso, come se fosse in ogni luogo fuori posto, fra ironia e disperazione. Nostra recensione
Era lì, su uno scaffale. Attendeva che trovassi il tempo per prenderlo fra le mani. Ogni libro è per me un oggetto animato, che chiede rispetto, che cambia nel tempo perché diversi sono i tuoi occhi, che si arricchisce dei tuoi appunti e diviene – ben oltre l’acquisto in libreria, dettato in questo caso dal richiamo balcanico – qualcosa di tuo. Quando ancora questa relazione non è cominciata, rimane lì, in attesa di appartenere a qualcuno. Poi accade che in un locale pubblico della mia città, venga fuori il nome di Aleksandar Hemon come possibile testimone di un incrocio di sensibilità, fra vecchie migrazioni austroungariche e moderni sguardi balcanici. E allora quel libro inizia la sua nuova vita.
Terre di confine, le Krajine, da poco sottratte alla dominazione ottomana. Dolci colline, dove ricostruirsi una vita dopo guerre ed alluvioni, gente povera che non ha più nemmeno il denaro per il biglietto di una nave, profughi nel proprio paese, tanto vasto che l’inno all’impero veniva cantato in almeno dodici lingue diverse. Arrivarono con i loro carri da paesi i cui nomi ci ricordano antichi racconti: Galizia, Rutenia, Boemia, Transilvania, Bukovina, Banato, Montenegro, Vojvodina… ma anche dal Friuli e dal Trentino. Parlavano tedesco, ungherese, ceco, serbo-croato, italiano, polacco, yiddish, romeno, slovacco, sloveno, ucraino… ma soprattutto un’infinità di dialetti.
Nacque così la “piccola Europa”, microcosmo di diversità che non facevano differenza, almeno fino a quando le ideologie egualitarie davano significato alle stelle rosse di tanti cimiteri in ricordo di chi sacrificò la propria vita nella resistenza al nazifascismo. Poi, anche i cimiteri divennero obiettivi di guerra da cancellare e con loro i nomi sulle lapidi che testimoniavano quella storia fatta di emigrazione e incontro, povertà e fatica, riscatto ed orgoglio.
Rituali dei pogrom, che entrano nell’immaginario del possibile. Penso al piccolo cimitero di Hambarine, nella Ljeva Obala nei pressi di Prijedor, Bosnia Erzegovina, con le lapidi spezzate e la moschea fatta saltare in aria insieme ad altre tredici nella stessa notte. Penso al cimitero cancellato dagli israeliani a Saffuriyya, in Palestina, affinché della storia degli altri non rimanesse traccia. Provvisori i cimiteri, figuriamoci le vite delle persone…
Se c’era una cosa che mi colpiva nelle case del dopoguerra bosniaco era quel senso di provvisorietà che ti trasmettevano le valigie e i sacchetti di nailon a quadretti “gonfi di roba scadente”, riposti nelle stanze e sopra gli armadi, in attesa di una “prossima volta”. Come se l’“andarsene” fosse normale e quella storia non avesse mai fine.
Che sia proprio vero quel che scrive Hemon sui cittadini balcanici a proposito di aver ricevuto “una di quelle borse come indennizzo per l’abolizione delle infrastrutture sociali”? Quasi un’eredità, che unisce questa gente, a prescindere dalla nazionalità. Identità forti, o vissute come tali, ma storie sovrapponibili.
Come il riconoscersi, in ogni latitudine, oltre le appartenenze, oltre la lingua parlata. Un “rituale del riconoscimento”, impalpabile ma intenso come l’odore della guerra. O del comunismo reale, che sa di polvere. Che ti fa sentire diverso e incompreso, perché dopo il comunismo la distinzione fra il bene e il male sfuma fino a scomparire, lasciando il passo al cinismo e agli affari tuoi.
Hemon descrive questo “universo parallelo”, un’incomunicabilità profonda che nemmeno l’amore riesce a superare, la stridente distanza fra un tranquillo battito del cuore e lo sferragliare notturno di una lavastoviglie che ti rigetta nell’incubo della paura.
Ho appena terminato di leggere “Il progetto Lazarus” (ed. Einaudi, 2010) e la cosa che mi rimane di questo affascinante racconto che fa la spola fra i pogrom che segnano gli albori e il crepuscolo del Novecento è proprio questo sentirsi sospesi, come ad essere in ogni luogo fuori posto, fra ironia e disperazione.
* Michele Nardelli è Presidente del Forum trentino per la pace e i diritti umani
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