Per Olli Rehn, Commissario Ue per l'allargamento, il 2009 doveva essere l'anno dei Balcani occidentali. Ma la crisi finanziaria, il varo del trattato di Lisbona e una serie di altri ostacoli stanno trasformando il percorso europeo di questi paesi in una marcia sul posto

24/02/2009 -  Tomas Miglierina Bruxelles

La realtà sta facendo del suo meglio per smentire Olli Rehn. Ai primi di ottobre dello scorso anno, il titolare del portafoglio allargamento alla Commissione europea aveva dichiarato che il 2009 sarebbe stato l'anno dei Balcani occidentali. Quattro mesi dopo, nel mezzo di una crisi economico-finanziaria senza precedenti, tutti i paesi della regione (l'ultima regione la cui vocazione ad integrare l'Ue non è messa in dubbio) stanno marciando sul posto.

La Croazia, il paese più avanti nei negoziati con Bruxelles, deve vedersela con il veto della Slovenia in relazione alle mai risolte questioni di confine, ma non solo: il procuratore capo del Tribunale penale internazionale, Serge Brammertz, ha definito insufficiente la collaborazione di Zagabria nella preparazione del processo Gotovina, stante la mancata consegna di alcuni documenti chiave relativi alle operazioni dell'esercito croato per conquistare il controllo dell'autoproclamata Repubblica serba di Krajina, nel 1995. Zagabria, che in un primo momento aveva negato l'esistenza delle carte in questione, ora avrebbe cambiato registro, ma non è ancora certo che la pendenza possa dirsi chiusa.

La situazione della Serbia è nota: l'intransigenza olandese (e, in parte, belga) sulla condizionalità con la collaborazione con il Tribunale dell'Aja impedisce non soltanto di concedere a Belgrado l'Accordo di stabilità ed associazione, ma persino di attuare un accordo temporaneo che era stato offerto alla vigilia delle ultime elezioni parlamentari come mano tesa dell'Europa verso le forze democratiche e filo-occidentali che poi effettivamente hanno vinto.

La situazione serba è resa complicata dalla confusione che regna intorno al Kosovo, ad un anno dalla dichiarazione di indipendenza. Al di là della retorica, gli europei e (in parte) i serbi hanno dato prova di pragmatismo, ma il problema rimane lontano dall'essere risolto. Paradossalmente il Kosovo è l'unico degli stati della regione la cui integrazione europea non è in stallo: la meta è cosi lontana che non ha alcun senso parlarne ora.

Dalla Macedonia non giunge notizia di alcun progresso nelle discussioni con la Grecia sulla questione del nome. Al contrario, l'enfasi sempre più frequente che le autorità macedoni a scopi elettorali mettono su Alessandro Magno e sulle tradizioni dell'antica Macedonia non faranno che irritare sempre più Atene. Anche nei corridoi della Nato, pur continuando a sottolineare l'importanza dell'integrazione euroatlantica per il futuro di Skopje, pochi sembrano ormai farsi illusioni.

La Bosnia Erzegovina attende tra i soliti, eterni e paralizzanti litigi l'arrivo del suo prossimo governatore, che porterà - come i predecessori - anche un berretto europeo. Con ogni probabilità sarà il diplomatico austriaco Valentin Inzko a prendere il posto di Miroslav Lajcak, diventato ministro degli Esteri della Slovacchia. E' facile cambiare i nomi, quasi impossibile cambiare le cose: i funzionari internazionali sembrano avere l'integrazione europea della Bosnia più a cuore dei politici locali.

Il Montenegro pensava che separandosi dalla Serbia avrebbe - tra le altre cose - impresso una maggiore velocità alla propria marcia verso l'Europa, ma non aveva fatto i conti con le elezioni tedesche. Il clima già molto elettorale che si respira in Germania - anche se il rinnovo del Bundestag avverrà solo in ottobre - è una delle principali ragioni che hanno spinto Berlino a spostarsi sul fronte delle cautela in materia di registrazione della domanda di adesione di Podgorica.

Su quel fronte si trovano già da tempo paesi come Olanda e Belgio, che non hanno niente di personale contro il paese, ma sull'allargamento in generale vogliono andare piano: dopotutto non si sa nemmeno quali saranno le regole del gioco dal prossimo anno. Il trattato di Lisbona sarà entrato in vigore?

In questo poco entusiasmante contesto, la decisione dell'Albania di non presentare per ora una domanda di adesione è stata definita "saggia" dalla Commissione stessa, che ha invitato Tirana a coordinare ogni passo con le presidenze di turno. Tra l'altro iniziative come la recente legge sulla lustrazione non aiuterebbero comunque la candidatura albanese.

Quasi ogni stato dei Balcani occidentali ha un ostacolo che si è messo di traverso sulla strada verso Bruxelles. L'incerta vita del trattato di Lisbona ha reso scivolose tutte le strade. La crisi finanziaria, infine, spinge chi sta alla fine del cammino a preoccuparsi di ben altre cose che non i problemi di chi sta per strada. Se persino un atto "notarile" come la registrazione della domanda montenegrina è diventata oggetto di dubbi da parte di alcuni stati, c'è davvero il rischio che le candidature non vengano più valutate solo per i meriti o demeriti degli interessati.

Venerdì scorso, dopo avere magnificato i successi dell'ultimo allargamento (i nuovi paesi sono diventati più ricchi, i vecchi non sono diventati più poveri), Olli Rehn ha rivolto un accorato appello affinché "non vengano fatti pagare all'operaio serbo gli errori commessi a Wall Street". Tra le capitali in sintonia con la Commissione c'è Roma: "fermarsi a metà strada sarebbe devastante, daremmo la sensazione di un tradimento", ha dichiarato il ministro degli Esteri Franco Frattini, dopo la riunione di lunedì (23 febbraio) con i suoi omologhi dell'Ue. Ma per ora il resto dell'Unione sembra avere altro a cui pensare.


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