© Dixon Photography/Shutterstock

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A 80 anni dalla sua fondazione, Diego Zandel riflette sul destino della Jugoslavia federale e socialista. Un viaggio intimo e personale per rispondere garbatamente allo storico Eric Gobetti, e arricchire il dibattito sulle sorti di un paese nato con grandi speranze e morto nella violenza

14/12/2023 -  Diego Zandel

Ho molto apprezzato l’articolo di Eric Gobetti sul compleanno della Jugoslavia, pur non condividendo un paio di sue considerazioni, per motivi che tenterò di spiegare.

Partiamo dal fatto che, in qualche modo, sono figlio di quel paese e che il mio interesse e amore per i popoli che lo componevano e la loro letteratura è tanto (e noto). Premetto, allo scopo, anche che mio padre è stato partigiano nella 22ma divisione della 4a Armata agli ordini del generale Petar Drapšin, partecipando alla corsa per Trieste, ripiegando dalla Lika in cui si trovava, in seguito all’ordine di arrivare nel capoluogo giuliano prima degli angloamericani. Qui, però, sul territorio che gli era proprio e per il quale si era impegnato contribuendo alla sua liberazione dal nazifascismo, mio padre, appena diciannovenne, aveva preso coscienza che i progetti di Tito erano altri, cioè quelli dell’annessione dello stesso alla Jugoslavia, annessione che lui, e tanti altri partigiani italiani o di sentimenti tali, non condividevano. Se ne rese conto quando, raggiunta Trieste, assistette al disarmo dei partigiani italiani, alle sparizioni di alcuni di essi, soprattutto di un amico d’arma che in “bosco” gli aveva insegnato a guidare il camion. Nella sua ingenuità fece la scelta di disertare e di tornare a casa, a Fiume, dove venne immediatamente arrestato. Quando uscì dal carcere di via Roma, e visto come si mettevano le cose in città (dal 3 maggio 1945, giorno dell’entrata dei partigiani al 31 dicembre 1947, cioè in pieno tempo di pace, nella sola Fiume sparirono ben 652 persone, tutte identificate), nel maggio del 1947 sposò in tutta fretta mia madre per poi fuggire con lei nel luglio dello stesso anno. Io nacqui in uno dei 109 campi profughi allestiti in quegli anni per accogliere le migliaia di esuli giuliani che lasciavano per sempre le loro terre.

Ecco perché dico che, in qualche modo, sono figlio di quella Jugoslavia. Un paese, tra l’altro, dove ben presto, nell’aprile del 1954, a sei anni appena compiuti, sarei andato per la prima volta con mia madre seguendo il suo struggente desiderio di rivedere dopo sette anni i genitori e i fratelli che erano rimasti (mio nonno aveva fatto per ben due volte richiesta di opzione per venire in Italia, ma gli vennero entrambe negate per il fatto che, come dipendente della raffineria e di fronte al vuoto di personale che si stava verificando in azienda, servivano braccia da lavoro; altra sorte avrebbe avuto se avesse avuto proprietà tali, imprese, terreni, che comunque gli sarebbero state espropriate come accadde a tutti).

D’allora tornai a Fiume tutte le estati, fermandomi nella casa dei nonni materni e, in parte, dai parenti, ramo paterno, ad Albona, per tutto il tempo delle vacanze scolastiche. Estati bellissime, di mare, di amicizie con miei coetanei provenienti dalle altre parti della Jugoslavia, come, ad esempio, la figlia serbo-montenegrina della coppia a cui fu data come casa il pian terreno, espropriato, della villa in cui i miei nonni e zii vivevano (poi sarebbe stato espropriato anche l’orto per costruirci sopra una palazzina), e altri ragazzi con i quali giocavo o ragazze che, da grande, avrei cominciato a filare. Va detto che, dal dopoguerra e fino alla fine degli anni Sessanta, per vari motivi l’atmosfera generale, anche per un ragazzino, non era delle più leggere. Intanto, in Istria, lungo la costa, e a Fiume, a causa del vuoto demografico lasciato da gran parte degli italiani autoctoni, era rimasta una minoranza che, per il forte controllo politico e l’obbligato indirizzo ideologico, non avrebbe mai goduto di una autonomia e libertà, anche di insegnamento nelle scuole e di stampa ad essa dedicate, paragonabili, ad esempio, alla minoranza slovena in Italia o, anche, a quella stessa del periodo austroungarico. Io trovavo da leggere – una passione che ho avuto fin da quando ho imparato a farlo – solo libri inneggianti la lotta popolare, con eroi ragazzi come me. Questo senza tenere conto del sostanziale mutamento di popolazioni avvenuto nel frattempo sul territorio. A Fiume, per rimanere nelle zone e ambiti di cui ho più informazioni e testimonianze, giunsero lavoratori da ogni parte della Jugoslavia, compresi, per quanto riguarda almeno la raffineria, in assenza ormai di quadri capaci di dirigere l’azienda, ingegneri dalla Cecoslovacchia (il fratello di mia madre scrisse di sentirsi uno straniero in casa propria). Nell’albonese, a rimpiazzare i minatori giunsero ben 12mila bosniaci. Poi c’erano altri problemi.

Ad esempio, per dirne uno significativo, mia zia, sorella di mia madre, si era messa con un operaio del cantiere, venuto con i monfalconesi, perciò comunista che, in odor di stalinismo, era finito a Goli Otok (un nome che correva sulla bocca di tutti, ma che alle cronache e alla storia sarebbe emerso molti anni dopo con la fine della Jugoslavia). In Istria, nella zona di Albona dove andavo con mio padre, che parlava il ciakavo, cioè il croato dell’Istria, erano arrivati insegnanti da altre parti della Jugoslavia con l’obiettivo di jugoslavizzare la lingua, facendo così scomparire artificiosamente la lingua locale da non riuscire più lui a parlare con la famigliarità che gli era propria (l’amico Marijan Milevoj, più recentemente ha composto un dizionario ciakavo-croato “Gonan po nase” ovvero parlando a modo nostro, molto utile per vedere le differenze). Come per la lingua, la stessa cosa avveniva – non solo in Istria e a Fiume ovviamente, ma in tutta la Jugo - con le religioni e altri aspetti sostanziali che facevano parte della storia e dell’anima profonda di quei paesi che la componevano, finendo così per soffocare il clima degli stessi (aspetti oggi, non a caso, ripresi con grande spolvero, forse proprio per reazione all’imposizione, superiore a prima). Il tutto, per altro, sostituito con la deificazione di Tito i suoi relativi riti parareligiosi (si pensi alla liturgia del 25 maggio con la staffetta paraolimpica degli studenti attraverso le varie repubbliche).

Fatto sta che, l’inizio della Jugoslavia, per tutti gli anni che vanno dal 1945 alla fine degli anni Sessanta, soffriva in maniera piuttosto forte i limiti propri imposti da un regime totalitario che aveva pensato di unificare artificiosamente i singoli popoli esclusivamente su base ideologica e di partito, secondariamente poliziesca, condizionando così pesantemente, e non senza grandi sofferenze e riserve che avrebbero continuato ad agire in maniera sotterranea, la vita sociale ed economica. Eclatanti, al contrario - seppur giunte con scarsa eco in Italia per il muro di gomma che era stato eretto nei confronti di un paese, sì comunista, ma non allineato all’URSS, e perciò da non disturbare - eclatanti, dicevo, le rivolte in Kosovo del novembre 1968, represse con violenza dalle forze di sicurezza jugoslave, ma poi con il risultato di spingere Tito a far aprire una università indipendente, di lingua albanese, a Pristina; e quelle del 1971 a Zagabria, represse allo stesso modo, infliggendo, per altro, anni di carcere ai capi della rivolta.

Molto della Jugoslavia di quegli anni ho ritrovato nel bel memoire di Luan Starova “I libri di mio padre”, in cui l’autore – che poi sarebbe diventato ambasciatore jugoslavo in vari paesi del mediterraneo – ricordava la follia del controllo sui libri che circolavano (in Istria, allora, lo stesso Tomizza veniva letto clandestinamente) e di altre leggi assurde come quelle che impedivano ai privati di tenere galline, capre e quant’altro, favorendo così le delazioni di quanti, invidiosi del vicino che, clandestinamente, ne possedeva anche solo una. Oppure, ancora, come racconta sempre Starova nel libro, di quando, dopo l’uscita della Jugoslavia dal Cominform, si subivano a casa le visite a sorpresa degli agenti dell’Udba, la polizia politica, che venivano a perquisire per vedere se conservavi foto di Stalin.

Sebbene l’uomo, per quieto vivere, tenda a rimuovere questi tristi ricordi, restano pur sempre presenti nel fondo della memoria e nel DNA. Sta di fatto che, allora, e per più di un decennio, si viveva sempre nel sospetto e nella paura per i rischi che si correvano, il che spiega, per quel che riguarda la mia esperienza personale, anche il motivo per cui, genitori, zii e nonni, facevano di tutto per tenermi all’oscuro di certi discorsi in famiglia, nel timore che ingenuamente ne parlassi fuori con gli amici (del fidanzato monfalconese di mia zia, ad esempio, venni a saperlo anni dopo). Un clima di paura e sospetto, della cui portata sarei stato consapevole più tardi, risvegliando in me certi confabulari dei grandi (si legga a riguardo il bel romanzo del fiumano Ezio Mestrovich, per anni capo dell’Edit, la casa editrice della minoranza italiana, in cui racconta il clima di sospetto e delazione che si viveva in città negli anni Cinquanta, romanzo scritto alla caduta della Jugoslavia, ma appena edito in Italia dall’ottimo Ronzani).

Le cose, poi, sì, certo, cambiarono dagli anni Settanta. Non è un caso che quella che oggi si chiama comunemente jugonostalgia io la percepisca forte in tutti coloro che sono nati in Jugoslavia dopo quegli anni. O stranieri che ne parlano bene avendola conosciuta dagli anni Settanta in poi, quando la Jugoslavia si era aperta al turismo e presero ad andarci in vacanza, con grandi alberghi, camere (sobe) casinò, campi nudisti, la musica che in Jugoslavia, oltre ad aprirsi a quella dell’occidente, aveva dato vita a straordinari complessi musicali come i Bijelo Dugme o a cantautori del calibro del grande Đorđe Balašević.

Un segnale di apertura dato dalla costituzione del 1971, perfezionata poi da quella del 1974, che diede valore alla sovranità delle singole repubbliche, avviando così una progressiva, più marcata federalizzazione della Jugoslavia, ma soprattutto una riduzione dello statalismo in economia (cioè l’invadenza dello Stato nell’economia, che spiega, per il grande debito e l’inflazione che inevitabilmente alla lunga ha prodotto, il crollo di tutte le economie socialiste). Intuizione che ha sancito sì l’avvio di un progetto interessante come l’autogestione, cioè delle aziende affidate agli stessi lavoratori, ma con il grave limite - in assenza di una economia di mercato - di mantenere ugualmente in vita aziende improduttive, decotte, a cui, per mero assistenzialismo, dovevano provvedere le aziende più produttive, generando quel debito e quella rivalità sotterranea che soggiaceva forzatamente dai primi quindici anni di centralizzazione. Il che ha tradito le buone intenzioni del progetto.

Poi, ancora, altre due iniziative importanti in termini di libertà: la prima, la possibilità per i cittadini jugoslavi di emigrare per lavorare, e molti lo fecero verso la Germania (qui soprattutto i croati che però si trovarono ben presto in balìa delle organizzazioni ustascia pronte ad aiutarli, con la collaborazione di residuati nazisti, nella ricerca del lavoro e delle abitazioni), e in Australia, Stati Uniti, Francia, Austria, nord est italiano e altri paesi occidentali. Emigrazioni favorite, intelligentemente, allo scopo di far entrare nel paese le rimesse di valute che i migranti inviavano a casa. L’altra iniziativa: la possibilità di aprire imprese proprie, private, con non più, però, irrealisticamente, di 5 dipendenti, che di fatto, per il limite politico e burocratico imposto, se le imprese crescevano, avrebbe favorito ben presto il lavoro nero impiegando quanti, dipendenti altrove, volevano arrotondare le modeste paghe che ricevevano, con l’obiettivo di stare meglio economicamente, magari comprarsi la Fićo, ovvero la Fiat 600 in versione jugo, o la cecoslovacca Škoda, come fece mio zio, il fratello di mia madre, disegnatore tecnico in raffineria, che arrotondava lo stipendio dedicando la sua professionalità il pomeriggio a commesse di privati.

C’era, però, il fatto che, a causa di ciò, le repubbliche più produttive dovevano contribuire a sostenere quelle meno, e ciò, alla lunga, aveva finito col creare malumore. Ero ormai adulto per ricordare certe ironie su alcuni popoli considerati lavativi o verso altri, in particolare la Serbia, accusati di scialacquare il denaro pubblico per lo più concentrato nelle loro mani per la presenza dei ministeri a Belgrado, così come il grosso dell’esercito ed altre strutture. Tutti aspetti sui quali i vari nazionalismi - in realtà, come ripeto, mai spenti a causa del vano tentativo di sottometterli autoritariamente e con la paura o, viceversa, con le blandizie, alla ideologia – nazionalismi che sarebbero esplosi nella terribile guerra che sappiamo.

Questa mia testimonianza vale solo per spiegare i pochi punti sui quali non mi sono trovato d’accordo con Gobetti, e cioè, più precisamente, quello in cui dice “Visto in questa prospettiva, il progetto politico che ha portato alla costituzione della Jugoslavia socialista e federale ottant’anni fa non era affatto destinato all’insuccesso. Il suo fallimento è dovuto a specifiche circostanze storiche, non era inscritto nella sua origine, come molti oggi sostengono”, mentre confido di aver spiegato perché l’insuccesso era invece ascritto proprio nel DNA stesso del progetto che, per quanto “onesto e coraggioso”, soprattutto dopo le costituzioni del ‘71 e del ‘74, non ha valutato l’importanza: sul piano sociale, della identità linguistica, culturale, storica, dei singoli popoli e comunità nazionali, ritenendo di continuare a puntare tutto, e, ripeto autoritariamente, su una omologazione partitico-ideologica; sul piano economico, non portando a termine rivoluzione rappresentata dall’autogestione inserendo l’economia di mercato che in termini di creazione di ricchezza, quindi in opposizione al pauperismo comunista fino allora diffuso, avrebbe portato, favorendo così la concorrenza e tutto ciò che questo comporta in termini di innovazione e organizzazione, con la differenza che le imprese sarebbero state gestite dai lavoratori stessi e non da singoli capitalisti.

Altro punto, ma a integrazione del primo, è la sottovalutazione della “ferocia di un regime impopolare che si sarebbe retto sulla violenza contro i suoi cittadini (o contro singoli popoli a seconda delle versioni), alla nostalgia per una sorta di paese dei balocchi dove cittadini felici e spensierati godevano di ogni beneficio senza alcuno sforzo.” Di questa ferocia non parlo ovviamente solo nei confronti del popolo istriano, ma anche di quello kosovaro, della minoranza tedesca in Slavonia, degli ungheresi in Vojvodina, e di tutti coloro che, non aderendo con il pensiero al dettato ideologico imposto dal regime o semplicemente criticandolo e, soprattutto, non venerandone l’artefice, Josip Broz Tito, o minacciandone il potere assoluto, subivano l’apostasia, quando non il carcere duro o la morte. Per restare alla Croazia, di cui ho una maggiore conoscenza, basti pensare alla sotterranea opposizione della Chiesa croata, la cui Azione Cattolica, so per certo, per resistere si era affidata a canali clandestini, paralleli a quelli del regime, che più tardi avrebbero rappresentato la base per il consenso a Tuđman.

Personalmente, credo che la nuova Jugoslavia, se fosse stata almeno rispettosa nei fatti del suo slogan di maggiore diffusione, “Fratellanza e unità”, cosa che sin dall’inizio è stata nella realtà disattesa per l’assenza macroscopica di democrazia, alla quale si è sostituito, come unico attore, il Partito Comunista. Partito a cui la Jugoslavia tutta ha dovuto sottomettersi, scontando, fin dalla lotta al nazifascismo la sua egemonia pretendendone, al contrario di quanto avvenuto in altri paesi europei e in Italia stessa, il monopolio assoluto (per restare a Fiume, nei primi giorni dell’entrata in città dei partigiani, con gli autonomisti, antifascisti della prima ora, venne ucciso anche il dott. Raucher, segretario del Partito Liberale cittadino, pur favorevole all’annessione di Fiume alla Jugoslavia).

Ultimissima considerazione, che più di altre mi fa riflettere sul fallimento del Paese, è proprio il fatto che questo approccio alla nuova Jugoslavia del dopoguerra, basata sul controllo politico non solo di un partito unico ma anche di un padrone nella figura di Tito, abbia impedito la formazione di una classe dirigente all’altezza del progetto e di una cultura autenticamente federalista, il quale, se abbandonata ogni ipoteca ideologica taumaturgica, avrebbe probabilmente dato nel tempo, più concretamente, un esempio quale modello di federalismo e di convivenza tra i popoli, compreso quello istrofiumano, popolo di frontiera per storia propria.

Invece, abbiamo dovuto vedere finire la Jugoslavia nel sangue com’era iniziata.


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