In un libro di recente pubblicazione un'ampia rassegna in chiave di storia militare sui partigiani titini durante la Seconda guerra mondiale. Una recensione
Velimir Vukšić, già collaboratore del museo militare di Belgrado, affronta in chiave di storia militare la genesi e le attività belliche dei partigiani titini durante la Seconda guerra mondiale. Guerra che inizia nell’aprile del ’41 con il travolgente attacco italo-tedesco al debole Regno di Jugoslavia, che infatti capitolerà in appena un paio di settimane. Ciò che attiverà efficacemente l’attività di lotta armata dei comunisti è, sul piano interno, la loro struttura panjugoslava già ben rodata dalla clandestinità (dal 1921 il partito comunista era infatti bandito), mentre sul piano internazionale l’attacco nazista all’URSS motiverà anche ideologicamente alla sollevazione. Sollevazione che iniziò già nel giugno del 1941 con l’istituzione dell’Esercito di liberazione nazionale jugoslavo (NOVJ) capeggiato da Tito e con la nascita dell’effimera Repubblica partigiana di Užice (in Serbia) tre mesi dopo.
Alla fine dello stesso anno la resistenza jugoslava aveva già raccolto 80mila combattenti, per divenire 150mila l’anno seguente e ben 800mila all’inizio del 1945, un numero pari a 52 divisioni. 300mila furono i caduti, ricordati nella monumentalità museale e funeraria (come ad esempio la necropoli partigiana di Mostar, opera del famoso architetto belgradese Bogdanović) che si diffuse ovunque nella Jugoslavia socialista.
Scrive l’autore che la sanguinosa guerra partigiana fu "una combinazione di guerra tra stati, di lotta contro l’occupazione straniera e di rivoluzione socialista". E anche se all’inizio i comunisti erano una minoranza dei combattenti – specie in Slovenia – presto riuscirono efficacemente (grazie anche all’intelligenza politica di Tito) ad assumerne la leadership militare, politica ed ideologica. Una leadership presto riconosciuta dagli Alleati, soprattutto dai britannici. “Fratellanza e Unità” non fu solo un motto, ma una filosofia che puntava a ricucire un paese frammentato da troppe storie ostili: per cui le brigate partigiane (specie in Bosnia) dovevano essere per forza multietniche.
Nel 1945 l’esercito partigiano però non smobilitò subito, a causa sia delle tensioni su Trieste e Istria che dello strappo temerario di Tito con Stalin nel giugno del 1948. Ma se attorno al 1950 la mobilitazione partigiana ormai si concludeva, nasceva invece la “partigianocrazia” jugoslava e la sua mitopoiesi, un impasto originale che mescolava un sistema di potere, una ideologia resistenziale, un socialismo sui generis.
Con gli anni Ottanta muoiono i principali leader che vengono dalla lotta antifascista (Tito in primis, ma anche personaggi come Kardelj, Bakarić, Ranković), mentre va appannandosi la presa ideologica di quella narrazione partigiana che si volle alla base della costruzione della nazione jugoslava (oltre che protagonista di numerose pellicole epiche, i cosiddetti partizanski film). Inoltre nello stesso decennio appaiono politici repubblicani – come lo sloveno Kučan ed il serbo Milošević – nati negli anni Quaranta e quindi dal punto di vista generazionale lontani dall’esperienza partigiana: con loro, come sappiamo, la storia della Jugoslavia prese tutta un’altra strada.
Oggi la demografia ed il revisionismo nazionalista hanno fatto cadere un deciso oblio sulle memorie partigiane e altri veterani hanno preso il loro posto negli immaginari politici post jugoslavi: sono quei branitelji (difensori) croati, serbi, bosniaci reduci delle varie guerre che negli anni Novanta hanno ridisegnato i Balcani.
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