Un'immagine tratta da “Miss Violence” di Alexandros Avranas

Un'immagine tratta da “Miss Violence” di Alexandros Avranas

Il malriuscito "Miss Violence" - ma non solo - è l'eredità per le sale italiane dell'ultimo Festival del cinema di Venezia. Una rassegna a cura del nostro critico cinematografico

11/11/2013 -  Nicola Falcinella

È nelle sale italiane il film greco “Miss Violence” di Alexandros Avranas, la sorpresa della 70° edizione alla Mostra del cinema di Venezia. Una pellicola che ha ottenuto due premi ufficiali importanti, il Leone d’argento per la miglior regia e la Coppa Volpi per l’attore Themis Panou. A questi si aggiungono il premio Arca Cinema Giovani come miglior film e il premio Fedeora come miglior film dell’area euro-mediterranea.

È la terza volta in quattro edizioni che un lungometraggio ellenico ottiene un riconoscimento a Venezia: nel 2010 l’attrice franco-greca Ariane Labed protagonista di “Attenberg” di Atina Rachel Tsangari vinse la Coppa Volpi, l’anno dopo è stata la volta dell’Osella per la migliore sceneggiatura ad “Alpeis - Alpi” di Yorgos Lanthimos. Ora due premi pesanti che mettono in evidenza il film ellenico, subito alle spalle “Sacro Gra” di Gianfranco Rosi che ha riportato in Italia, un po’ oltre i suoi meriti, il Leone d’oro dopo 15 anni. Un’edizione del concorso non eccezionale, con pochi film sopra la media, ha visto un palmares a ombre e luci. Si è dovuto accontentare del Gran premio della giuria, il film più coraggioso e riuscito, “Stray Dogs” del taiwanese Tsai Ming-Liang.

Scioccare i borghesi

“Miss Violence” è una dura storia di violenza familiare con una vicenda, e soprattutto alcune scene, che vorrebbero essere disturbanti, ma sono solo irritanti. Un altro film fastidiosamente programmatico appartenente al filone “épater le bourgeois” che sembra tanto di moda nel cosiddetto “weird greek cinema”, che ha in Lanthimos (regista anche di “Dogtooth”) il proprio capofila.

Nella prima inquadratura due ragazzine che entrano da una porta vestite di bianco. È l’undicesimo compleanno della più piccola, Angeliki. Ad attenderla c’è una festa senza allegria, con madre, due fratelli più piccoli e i nonni. Il tempo di tagliare la torta e la festeggiata esce sul terrazzo e si butta di sotto, guardando nell’obiettivo della macchina da presa e facendo un mezzo sorriso. Il resto della famiglia è composto da un nonno dittatore, suadente e crudele, una nonna silenziosa e remissiva, una madre single e sfuggente, altri due bambini (maschio e femmina) più piccoli. La famiglia cerca di nascondere la cosa, di continuare dietro un’apparente normalità che nasconde altri segreti indicibili, mentre polizia e servizi sociali cercano (ma non più di tanto) di scoprire la verità.

La lunga scena degli abusi, prima da parte di due amici e poi del nonno, sulla nipote più grande (con l’attrice visibilmente sostituita da una controfigura) è esemplificativa. Differente nello stile di ripresa e nel ritmo dal resto del film è la prova dell’ipocrisia di fondo e della voglia di stupire a tutti i costi. Avranas non dice niente di nuovo sulla famiglia, ma lo fa con il tono di colui che vuole sollevare il velo. Chiude tutti in un universo concentrazionario (come già in “Dogtooth” dove la metafora uccideva la storia) e lascia all’esterno tutti i nemici, assistenti sociali per primi.

Film morboso e compiaciuto, nel quale mancano la storia e un'idea di cinema:
 guarda al cinema nordico (a quello danese alla Thomas Vinterberg, che porta allo scoperto il marcio nelle famiglie) e vorrebbe essere Michael Haneke o Ullrich Seidl, ma ne resta lontano anni luce. In fondo si rivela maschilista: le donne subiscono, ma sono vittime e complici, il ragazzino irriso è pronto a ereditare la violenza e il rancore, il finale che non si può raccontare ma è più ambiguo di quel che sembra.

Inquadrature fisse, poca musica, ma due brani come “Dance Me to the End of Love” di Leonard Cohen sulla festa e la poco opportuna “L’italiano” di Toto Cutugno in uno dei momenti più duri.

A priori

È un peccato che una parte dei registi greci si limiti, nel cercare di raccontare la crisi del Paese, a ripetere la stessa ricetta, senza andare oltre, senza approfondire, senza sviluppare le storie, mettendo semplicemente insieme elementi che vorrebbero essere simbolici e che ciascuno legge come vuole (e con un certo grado di giudizio a priori). Ed è un peccato che i pochissimi film ellenici che riescono a raggiungere le nostre sale suscitino così tante riserve, ma intellettualismo e manierismo sono le caratteristiche che li accomunano.

Zoran, il mio nipote scemo

Appena uscito in sala con successo è anche la vera rivelazione veneziana, la commedia alcolica “dai cieli grigi” “Zoran il mio nipote scemo” di Matteo Oleotto con Giuseppe Battiston finalmente protagonista. Il film vincitore della Settimana della critica è una coproduzione italo-slovena ambientata a cavallo del confine con Battiston nel ruolo di Paolo Bressan, quarantenne incattivito e abbrutito che passa la maggior parte del tempo a bere nelle osmizze e a litigare. Cambia le cose l’arrivo, in eredità, del nipote sloveno Zoran bravissimo a giocare a freccette. Una commedia con la giusta gradazione alcolica, che fa ridere e pensare, scritta e girata bene, con un cast metà italiano e metà sloveno (ma c’è anche il regista d’animazione francese Sylvain Chomet in un cameo) perfetto, una cura dei personaggi e dei luoghi rara e una colonna sonora preziosa con tanto di cori popolari. Un film nordestino godibilissimo che ricorda un po’ il cinema di Carlo Mazacurati, cita “Il grande Lebowski” e “Totò Peppino e la malafemmina” e ha tormentoni che non si dimenticano.

Future reloaded

Meritevole di attenzione, pur negli alti e bassi congeniti in questo tipo di operazione, “Venezia 70 – Future Reloaded” con i cortometraggi di 70 registi chiamati a interpretare le trasformazioni e il futuro del cinema e ora tutti disponibili in Youtube. Tanti grandi nomi, da Ermanno Olmi al presidente di giuria Bernardo Bertolucci, compresi cinque registi dell’area: i greci Athina Rachel Tsangari e Yorgos Lanthimos, lo sloveno Jan Cvitkovic (“Kruh in mleko” e “Di tomba in tomba”), il turco Semih Kaplanoglu (“Bal – Miele”) e il macedone Milcho Manchevski (“Prima della pioggia”, “Dust”).

Tra nostalgia per la pellicola che non c’è più e bambini che nascono e crescono, domande su Dio, occhi che guardano, piedi che camminano (o si muovono sulla sedia a rotelle su strade accidentate come nel caso del regista parmense), riflessioni sul cinema che cambia pelle (Paul Schrader) si toccano tanti temi e aspetti. Su 70 ci sono alcuni corti inutili, ma parecchi sono belli, alcuni dei veri gioiellini, l’insieme si è rivelato più interessante del previsto e i migliori sono i registi asiatici. Tra i più belli quello della greca Rachel Tsangari, con due vecchi proiettori in pellicola che restano soli a guardare il mare e a parlare tra loro come in “Wall-e”.

Alienazioni

Regista bulgaro ma con uno stile che guarda al cinema greco è “Alienation” di Milko Lazarov presentato nelle Giornate degli autori. Il protagonista è Christos Stergioglou (“Dogtooth”, “The Eternal Return of Anton Paraskevas”) nei panni di un greco di origine bulgara che si prepara meticolosamente a una missione misteriosa. Deve andare in auto oltre confine e adatta l’auto e un serbatoio del gas come contenitore.

Lascia la famiglia, supera il confine, incontra delle persone, insieme raggiungono una casa isolata in cima a una collina dove una donna si prepara a partorire durante una tempesta. Anche qui, poche parole, niente musica, poche spiegazioni e tanti simboli. Parrebbe a storia di un uomo che (forse) importa bambini per coppie che vogliono acquistarli e che crede di comportarsi bene. Un film non brutto ma non risolto e che non convince, più di intenzioni che di risultato.

Infine tutto in un pianosequenza è l’interessante corto kosovaro “Balkoni” di Lendita Zeqiraj che era nella sezione Orizzonti. Un ragazzino che sembra si stia buttando da un balcone è l’occasione per descrivere le reazioni intorno, tra disinteresse e allarme, mentre si aspetta che torni la madre.


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