Un po’ sottotono rispetto alle edizioni precedenti e per la prima volta coincidente con la giornata del ricordo del massacro di Srebrenica, il Film Festival di Sarajevo premia il romeno Radu Jude
Premi distribuiti tra quattro film e quattro nazioni, ma alla fine vince la Romania. Il Sarajevo Film Festival ha chiuso la sera del 14 luglio una 18° edizione forse un po’ sottotono.
Un’edizione per la prima volta all’inizio di luglio e per la prima volta, sovrapposta alla giornata in ricordo dei morti e degli scomparsi di Srebrenica del 1995. L’11 del mese il festival ha ospitato una programmazione dal basso profilo, senza eventi, feste, musica e tappeti rossi. Un’atmosfera irreale sia nella zona dell’Sff intorno al Teatro nazionale sia nella città, che ha contagiato anche gli ospiti del festival.
Marija Pikić, miglior attrice
Di “Djeca – Buon anno Sarajevo” ha parlato, alla Mostra di Pesaro a fine giugno, la sua attrice protagonista, Marija Pikić, poi premiata con l’Heart of Sarajevo come migliore interprete. Ventidue anni, di Trebinje, già alcuni ruoli alle spalle (tra gli altri “The Enemy” di Dejan Zecević), è pure salita sul palco a ritirare i premi vinti (miglior film, premio giovani e premio Amnesty International) dal film di Aida Begić.
“Non sono musulmana, non sono di Sarajevo - ha spiegato l’attrice - Provengo dalla Bosnia orientale, ma la produzione del film e la regista mi hanno fornito tutto il necessario per capire la situazione. Non conoscevo di persona quel che era successo a Sarajevo, ho svolto due mesi di preparazione passando anche tanto tempo con gli orfani di Sarajevo e guardando i loro occhi. Il film racconta anche i tre popoli di Bosnia che si sono fatti la guerra e ora non si conoscono più. Ormai non si sa più che cosa accade di là del confine di ciascuna entità. È stato un conflitto tra popoli fratelli che non ha lasciato vincitori o vinti”. “Aida Begić indossa il velo – ha aggiunto Marija Pikić - e mi ha aiutato tantissimo, mi ha fatto capire come si porta il velo fino a farlo diventare parte della persona e del mio personaggio. Il portare il velo è il voler dare un segno di non essere più peccatrice, di voler essere anche d’esempio per gli altri”. Quanto al suo personaggio, l’interprete ha detto che “il passato di Rahima è da ragazza ribelle, dobbiamo immaginarla quasi una punk. Uno dei suoi amici del passato era un drogato, ma lei si è salvata. Un po’ per responsabilità verso il fratello, un po’ per scelta religiosa, un po’ per fare vedere il cambiamento all’assistente sociale che la controlla”. “Il film è sulla mia generazione – ha affermato la giovane attrice - che è quella che più ha sofferto per la guerra, che ha avuto una vita dura a causa della guerra”. Una delle cose che la Begić si è chiesta è se oggi sarebbe più facile spararsi addosso dato che l’han fatto anche quando si sentivano fratelli. “Oggi a Sarajevo è normale vedere donne coperte dal velo per la strada. L’impressione che si ha è che quella sia la cultura dominante. Oggi le persone sono abbastanza abituate a vivere con i confini. Anche le forze internazionali non sono più così presenti e non si notano più come nel recente passato. Le nuove generazioni non credono che ci sarà una nuova guerra. La mia generazione non è portata agli scontri etnici come fu negli anni ’90. Anche i matrimoni misti ora sono tornati a essere una consuetudine. Un processo interessante e positivo, anche se lento”.
(N. Fal.)
Il verdetto finale della giuria, presieduta dal regista Kornél Mundruczó, ha assegnato l’Heart of Sarajevo al romeno “Toata lumea din familia noastra – Everybody In Our Family” di Radu Jude. Il premio speciale è andato al turco “Beyond The Hill / Tepenin ardi” di Emin Alper, quello di miglior attrice a Marija Pikić per “Djeca – Buon anno Sarajevo” di Aida Begić e di migliore attore a Uliks Fehmiu per il serbo “Redemption Street - Ustanička Ulica” di Miroslav Terzić.
Nulla da eccepire sui premi agli attori, il verdetto è abbastanza equilibrato per una selezione non esaltante in un’annata non memorabile. I giurati non hanno osato premiare “Djeca”, con le sue critiche alla Bosnia di oggi, proprio a Sarajevo e hanno scelto il migliore degli altri, l’opera seconda di Jude, già presentato nella sezione Forum della Berlinale (come già la pellicola di Alper).
Il vincitore
“Everybody In Our Family” è un buon film, che conferma l’abilità narrativa del regista e la capacità di dirigere gli attori. Tra i due filoni di osservazione della società romena da parte dei suoi cineasti, l’assenza di famiglia o la troppa famiglia, questo sta sicuramente nel secondo (e ricorda per certi versi “Best Intentions” di Adrian Sitaru). Un padre separato vuole trascorrere al mare l’unica giornata in cui ha in custodia la figlia piccola. Marius prima passa dai propri genitori dove ha una lunga discussione con loro, ma anche un sostegno materiale (gli prestano pure l’auto). Raggiunge la casa dell’ex moglie per prendere la bambina, che dorme ancora, mentre la donna è uscita e la suocera lo fa entrare con gentilezza. Nell’abitazione c’è però l’indisponente nuovo compagno della moglie con il quale inizia un litigio concluso da un incidente contro una porta. La situazione degenera ancor più quando si alza dal letto la figlia e rientra la moglie e madre, Otilia. Il clima di esasperazione è la conseguenza delle frustrazioni che tutti vivono: il regista sembra stare dalla parte di Marius, cui sono negati i suoi diritti di padre, ma pure lui perde la testa e le sue reazioni sono eccessive. La camera a mano e le lunghe sequenze creano una continua tensione che è un altro dei marchi di fabbrica del cinema romeno.
Cinema turco
Avrebbe meritato forse di più la Turchia, presente in concorso con ben tre film (oltre a “Summer Book” di Seyfi Teoman del 2008, omaggio al regista da poco scomparso in un incidente stradale) di buon livello. “Present Tense - Simdiki Zaman” di Belmin Söylemez racconta Mina che cerca lavoro a Istanbul mentre aspetta un visto per gli Usa. Finisce a leggere i fondi di caffè in un bar a fianco della più esperta Fazi. L’attrazione verso il proprietario del locale Tayfun è un elemento che accentua il suo essere divisa tra partire e restare. Un’opera prima molto interessante, fatta di silenzi, atmosfere intense e immagini curate.
Ne “La voce di mio padre” di Orhan Eskiköy ci si sposta nella regione curda. Mehmet vive a Diyarbakir con la fidanzata, ma torna al villaggio dove vive da sola la madre anziana. Trova vecchie registrazioni audio del padre, fuggito in Germania da molti anni dopo essere sopravvissuto a un massacro di paramilitari ai danni degli aleviti spacciandosi per musulmano. Intanto il fratello si è unito ai guerriglieri e non è più tornato, se non quando telefona alla madre senza dire niente, ma potrebbe trattarsi di un’altra delle ossessioni materne.
Ha ottenuto invece il premio “Beyond The Hill” (il titolo internazionale è molto simile a “Beyond The Hills” di Cristian Mungiu, presentato nella sezione In Focus dopo i premi a Cannes), il film con un marchio più d’autore dei tre ma forse il meno compatto. Una storia sull’antico (e ancora ben presente, seppure in forme cambiate) contrasto tra stanziali e nomadi: una famiglia di agricoltori teme i pastori che vivono sopra il canyon.
Il thriller serbo
Il serbo “Redemption Street - Ustanička Ulica” di Miroslav Terzić è un thriller all’americana, ben recitato, ma con grossolani buchi di sceneggiatura e prevedibile nel suo sviluppo, anche se, tra tutti e nove i film in lizza è quello destinato a un pubblico più largo. Un giovane procuratore (Gordan Kičić) del tribunale per i crimini di guerra di Belgrado riceve dal suo misterioso capo (Rade Šerbedžija) un caso delicato: deve indagare sulla scomparsa di un’intera unità di soldati cui durante l’epoca Milošević venivano affidati i lavori sporchi. Il nuovo venuto, figlio di un noto professore, è sottovalutato e considerato un incapace, così l’indagine sembra solo un modo per non scoprire la verità e coprire ancora una volta la verità. Dušan, conscio che si tatti del caso della vita, risale all’unico scampato del gruppo (Fehmiu, figlio dell’indimenticabile Bekim) ma si infila in una situazione più grande di lui.
Da notare che erano ben quattro i film di registe donne in gara: oltre a Begić e Söylemez, da ricordare la macedone Teona Strugar Mitevska di “The Woman Who Brushed Off Her Tears” e l’austriaca Ruth Mader di “What Is Love”.
Corti e menzioni speciali
Tra i cortometraggi è stato premiato “The Return / Kthimi” della kosovara Blerta Zeqiri, il ritorno a casa di un uomo scomparso durante la guerra che scopre la drammatica storia di violenza vissuta dalla compagna. Menzioni speciali al bulgaro “The Paraffin Prince” di Pavel G. Vesnakov e al romeno “Daddy Rulz - Tatal meu e cel mai tare” di Radu Potcoava. L’Heart of Sarajevo onorario è stato consegnato al produttore croato Branko Lustig, che ha lavorato nei kolossal jugoslavi come “Kozara” e a Hollywood, in “Schindler’s List” e nei più recenti film di Ridley Scott, da “Il gladiatore” ad “American Gangster”. Il pubblico ha confermato quel che il resto del mondo aveva decretato nel corso della stagione: il francese “Quasi amici” di Olivier Nakache ed Eric Toledano ha avuto l’incredibile media voti di 4,97 su 5.
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