Ado Hasanović - © Massimo Calabro

Ado Hasanović - © Massimo Calabro

Ado Hasanović, regista di origine bosniaca residente in Italia, intervistato sulla via del rientro da Cannes parla dei suoi prossimi progetti, che coinvolgono direttamente anche la sua Srebrenica. Un’intervista

11/07/2024 -  Anna Lodeserto

A Sarajevo è facile percepire una linea di continuità tra la Francia e la Bosnia Erzegovina, in particolare a partire dal Sarajevo Film Festival (SFF), che quest’anno celebrerà la sua trentesima edizione.

L’anno scorso è stato presentato “Searching for Justice ” (Tražeći Pravdu; Bosnia-Erzegovina/Paesi Bassi/Italia, 2023), uno degli ultimi lavori di Ado Hasanović, costruito attraverso un processo collaborativo che ha coinvolto giovani alle prese con studi giuridici nelle Università di Leiden e Sarajevo.

La costante ricerca di giustizia, soprattutto a partire dall’esperienza del genocidio di Srebrenica al quale lo stesso Ado è sopravvissuto, è costantemente presente nella storia e nella narrativa legate alla cinematografia degli ultimi trent’anni, e al tempo stesso sembra essere ancora lontana la possibilità di produrre un racconto completo e in grado di toccare le coscienze collettive, anche a fronte dei continui processi di negazione.

Ado, secondo te, cosa può offrire in tale chiave la partecipazione a un festival di ampio raggio quello di Cannes?

A Cannes quest’anno ho partecipato non con un prodotto, ma per completare la mia esperienza di regista e di artista. Essere lì, con tutta la propria coscienza artistica, è un’esperienza straordinaria e ogni persona che lavora in ambito cinematografico dovrebbe partecipare almeno una volta.

Il Festival di Cannes è molto particolare dal punto di vista della partecipazione, dato che è necessario avere un accredito e tale possibilità è circoscritta prevalentemente all’ambito cinematografico. Si tratta di un contesto molto esclusivo, diversamente da quello di Sarajevo che accoglie persone comuni da diversi paesi. Nonostante le grandi differenze, sia a Cannes che a Sarajevo tutta la città celebra il cinema internazionale. Perché a Cannes, nonostante gli accessi riservati agli addetti ai lavori, la cittadinanza è in perenne movimento durante i dieci giorni del festival, proprio come a Sarajevo, mentre non ho avuto modo di riscontrare dinamiche simili in tantissime altre città in cui sono stato in occasione di festival cinematografici.

Tant’è che entrambe sono insignite del titolo UNESCO City of Film: Sarajevo dal 2019 and Cannes dal 2021…

Questa è una cosa molto bella e mi fa piacere che anche Sarajevo abbia ottenuto questo riconoscimento. La sezione che curo in tale ambito si chiama “Passaggi d’Autore: intrecci mediterranei” [grazie alla collaborazione del Sarajevo Film Festival con il Festival del cortometraggio mediterraneo di Sant'Antioco , ndr], ha già tre edizioni alle spalle ed è dedicata ai cortometraggi italiani.

Per quale motivo questo legame con “Passaggi d’Autore” è così importante?

Perché spesso gli autori italiani non possono inviare un film al Sarajevo Film Festival: se non si dispone di una coproduzione balcanica non si può partecipare in virtù di una strategia adottata da Sarajevo per non entrare in competizione con festival come Berlino, Cannes, Locarno o Venezia. In tale prospettiva, una sezione fuori concorso come “Passaggi d’Autore” all’interno della quale si presentano i cortometraggi italiani è molto importante e negli ultimi tre anni le nostre proiezioni hanno costantemente registrato il ‘tutto esaurito’. Come direttore artistico sono orgoglioso di questo successo, perché sta contribuendo a creare un ponte con l’Italia che prima non esisteva a questo livello.

Stai per immergerti in un altro festival che coinvolgerà una città molto diversa, associata ad un genocidio sul quale tanto è stato narrato, ma ancora poco si conosce. Parliamo di Srebrenica, a cui tu sei legato sotto molti aspetti e che potrebbe essere maggiormente conosciuta anche come sito di esplorazione culturale...

Per me, tutto è iniziato da Srebrenica . Oggi quel luogo è la rappresentazione della metafora mitologica della Fenice, che deve morire per vivere, per avere una seconda vita diversa. Srebrenica è dove ho iniziato il mio percorso cinematografico e ho conosciuto tante persone uniche. A Srebrenica non ho mai incontrato persone cattive, anche se è un luogo dove sono successe cose orribili, dove ho perso tanti membri della mia famiglia e dove i corpi di alcuni di loro non sono ancora stati ritrovati. Parlare di Srebrenica mi pesa e mi sono sempre chiesto: “Quando io, bosniaco, parlo di quegli avvenimenti… cosa diranno i miei coetanei serbi che vivono là?”

Perché quando ne parlo a volte penso che evocando quei fatti sarò giudicato da loro o da altre persone. In molti non sanno cosa ho vissuto con la mia famiglia: tanti abitanti di Srebrenica, Bratunac, Zvornik, Višegrad, sono andati via prima dei massacri, del genocidio, non hanno vissuto quello che ho vissuto con i miei genitori. Noi siamo rimasti perché credevamo nell’umanità e che l’orrore non sarebbe mai potuto accadere.

Sono convinto che quanto è successo in quelle zone all’inizio della guerra sia peggiore di quello che è poi accaduto alla fine. Perché? Perché all’inizio della guerra non sapevi che un vicino di casa avrebbe potuto ucciderti. Non credevi che un vicino avrebbe potuto rubarti finestre, porte, televisore, frigorifero… e poi dare fuoco alla tua casa. Proprio questo però è accaduto, anche a me e alla mia famiglia. Soltanto dopo sono diventate chiare le ragioni, i dettagli: molti dei carnefici erano vittime di una feroce propaganda, ma non tutti erano persi dentro quello schema. Ci sono state persone pronte ad aiutare e a sottrarsi a quegli ordini. Nel nostro villaggio, per esempio, a un certo punto è venuta una vicina serba e ha detto “i maschi che devono scappare” perché voleva proteggerci. Lei sapeva che stava per succedere qualcosa di terribile.

Questo episodio è stato ricostruito solo recentemente. Ci sono tante cose che stiamo ancora processando perché la guerra in Bosnia è una grande trauma. Bisogna ricordare che in soli sette giorni a Srebrenica sono state uccise più di ottomila persone.

Parlando di Srebrenica oggi…

È impossibile parlare solo della Srebrenica di oggi: spesso dobbiamo rivolgerci al passato, ma io lavoro per il presente, combatto per il futuro di Srebrenica. Ho anche collaborato per molti anni con l’associazione “Prijatelji Srebrenice” (Amici di Srebrenica): anche in quel contesto organizzando un festival cinematografico. Da quest’anno, insieme all’associazione “Admon Film” e in collaborazione con il Forum Internazionale di Solidarietà – Emmaus e con l’associazione “House of Good Tones” stiamo organizzando un festival cinematografico che si chiamerà “Silver Frame Film Festival ”. Quella in programma dal 15 al 17 luglio 2024 sarà la prima edizione e si svolgerà parallelamente al campo di volontariato di Potočari.

Come nasce l’idea di questo nuovo festival a Srebrenica?

L’idea è nata negli ultimi cinque anni, mentre contribuivo al campo di volontariato organizzato dal Forum Internazionale di Solidarietà – Emmaus a Potočari al quale partecipano tanti giovani e che prosegue sulla scia dell’esempio di quanto avviato da Franco Bettoli, un tempo a capo di Emmaus International e venuto a mancare nel 2008. In quel contesto, ho organizzato laboratori e proiezioni cinematografiche insieme a centinaia di ragazzi e ragazze provenienti da tutto il mondo. Alla fine dello scorso anno abbiamo deciso di alzare il livello culturale e organizzativo sotto il nome di “Silver Frame Film Festival” per omaggiare il ricordo dell’argento associato a Srebrenica. Nel periodo romano, infatti, la città si chiamava Argentaria ed era nota soprattutto per le acque termali e le vene argentee che il nome del festival aspira a rievocare. La missione di questa iniziativa è valorizzare le persone e il luogo dove ci troviamo attraverso un festival che deve portare la vita e offrire opportunità di formazione coinvolgendo le nuove generazioni che vivono a Srebrenica, che attualmente non hanno la possibilità di fare cinema e di avere accesso a processi di apprendimento innovativi. Si tratta di ragazzi e ragazze che in tutti questi anni hanno perso la voglia e la fiducia di partecipare, di farsi coinvolgere in eventi del genere e parte della nostra missione sarà anche quella di lavorare direttamente con loro.

In questi giorni l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato la risoluzione sul genocidio di Srebrenica e tu anticipavi un sentimento di sfiducia con il quale generalmente ti confronti anche nel presente…

La cosa più grave per la popolazione locale resta la perdita di fiducia associata alla protezione che è venuta a mancare nel corso del tempo. Oggi il processo di negazione del genocidio del 1995 è molto palpabile ed è importante che la risoluzione lo menzioni e sanzioni, ma questo non basta. Io non posso ancora credere al fatto che, dopo tutto questo tempo, i Paesi dell’ONU abbiano finalmente votato a favore di questa risoluzione. Quando dovevano salvare un popolo, i giovani, gli uomini e le donne bosniaci, le Nazioni Unite non hanno agito e sinceramente non mi sarei aspettato questa decisione. Si percepisce il sentimento di colpa, insieme al fallimento delle istituzioni internazionali.

Ci può essere un futuro che incorpora la cultura come possibilità per i giovani di restare, sapendo che l’emigrazione giovanile è uno dei problemi principali dei paesi dei Balcani e del sud-est Europa?

Il ruolo della cultura può rappresentare un ponte verso il futuro e il nuovo festival cinematografico di Srebrenica potrebbe creare delle nuove connessioni significative. L’arte ha un potere enorme e unico, ovvero quello di parlare di cose difficili anche senza esprimere una sola parola.

Il festival che stiamo avviando e per cui stiamo cercando collaboratori e sostegno, anche sul piano dei finanziamenti indipendenti, potrebbe offrire opportunità per le nuove generazioni. L’idea è quella di creare nuovi legami con diversi paesi e di portare queste persone a Srebrenica. Gli artisti potranno fermarsi, lavorare e partecipare, ma soprattutto conoscere le persone che vivono là. L’obiettivo resta quello di valorizzare le persone che animano quel luogo tutto l’anno e creare legami forti e autentici con la comunità di riferimento.


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